mercoledì 18 novembre 2009
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Anche in Italia siamo alla guerra dell’acqua. La decisione del governo di porre la fiducia sul decreto Ronchi acutizza, infatti, lo scontro sulle liberalizzazioni dei servizi pubblici locali e finisce per renderlo persino più ideologico. Tutto ciò avviene per di più in un momento delicato, in uno scorcio di legislatura nel quale si è tornati a ridurre le riforme di cui ha bisogno il Paese a strumenti di rischiose ordalie tra gruppi politici e tra poteri pubblici. E così il voto di fiducia su questo provvedimento riesce, nello stesso tempo, a eccitare e a soffocare il dibattito pubblico sulla controversa privatizzazione del servizio idrico integrato. E lo fa proprio quando vi era più bisogno di confronto, e di confronto civile.Che questo tipo di riforme possano dividere, anche aspramente, si sa. Finora, però, il confronto tra chi associa privatizzazioni a risparmi ed efficienza e chi invece ci vede la svendita dell’ "acqua del sindaco" alle multinazionali procedeva come un torneo di bridge, dando ai contendenti la certezza di poter vincere o perdere ai punti e solo affidandosi al ragionamento. Con il voto di fiducia di oggi, invece, si ha la sensazione di essersi ritrovati al cospetto di una brutale mano di poker. Una situazione che, francamente, non convince. Così come non convince la difesa a oltranza dello status quo.A fronte di un sistema minato da inefficienze e sperequazioni, è doveroso porsi il problema di chi (e come) debba pianificare, organizzare e gestire al meglio la risorsa idrica. Occorre farlo senza nascondersi che, in una fase di crescente responsabilità fiscale – dettata certo dalla congiuntura, ma non meno dall’incipiente federalismo – i costi non possono continuare a ricadere sul contribuente e si deve raggiungere un equilibrio tra la garanzia di un servizio buono e universale e corrette politiche tariffarie e anti-sprechi. Fa riflettere, perciò, che mentre l’autunno si surriscalda, venga iperpoliticizzato un passaggio parlamentare così complesso, e dal quale dipende un diritto non negoziabile come l’accesso dei cittadini all’acqua potabile, in cui si concretizza il diritto naturale alla sussistenza e, si potrebbe dire, il diritto stesso alla vita.Chi ha vero senso dello Stato e, quindi, un senso alto del mercato, sa che una legge come questa, in grado di modificare la nostra cultura economica ma anche la percezione del livello di democrazia che abbiamo raggiunto, dev’essere affrontata con spirito e prassi bipartisan, non meno di quelle con le quali si riscrivono le regole del gioco, perché di esse ha lo stesso valore basico.Il punto che divideva i due fronti prima che venisse posta la questione di fiducia non era se l’acqua potabile debba essere gestita con criteri "economici", ma fino a che punto l’autonomia gestionale concessa al gestore, in nome di quei criteri, possa vincolare l’accesso di tutti a un bene che deve restare pubblico. E proprio su quest’ultimo punto, prima che i tempi fossero collassati, era stato raggiunto un accordo tra maggioranza e opposizione, con l’approvazione di un emendamento che richiama la «piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche» puntando l’attenzione su «qualità e prezzo del servizio» e ribadendo «il diritto alla universalità ed accessibilità» del medesimo. Affermazioni di principio tutt’altro che vaghe e che per fortuna restano nel testo, ma che dimostrano che c’era la possibilità di una più larga intesa. L’ipertrofia di emendamenti partoriti dalle opposizioni, obiettivamente, ha concorso a spingere nella direzione opposta. E i governi, di qualunque colore essi siano, da anni aspettano solo l’occasione di essere "costretti" a tagliar corto a colpi di fiducia. Occasione che, in genere, viene colta al volo. Anche stavolta, purtroppo.
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