domenica 10 novembre 2013
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Caro direttore,
ho seguito la vicenda di Max Tresoldi e sua madre che finora praticamente solo 'Avvenire' ha riportato con attenzione e completezza. Ammiro quella madre che ha saputo ridestare la vita di suo figlio: è come se gli avesse dato la vita una seconda volta. Vita che, comunque, non è mai venuta meno. Vita che lei ha saputo ridestare attraverso l’amore, non a livello di coscienza, ma a livello di comunicazione. Non è vero, infatti, che i soggetti in stato vegetativo non sono coscienti. È più corretto dire che non sono contattabili, cioè non possono comunicare ciò che la loro coscienza comunque percepisce. E questo Max Tresoldi l’ha testimoniato dopo essersi risvegliato. O, per meglio dire, è sempre stato 'sveglio' dentro, e 'svegliandosi' di più è ridiventato in qualche modo capace di contatto con l’esterno. Cioè, appunto, contattabile. In ogni caso esistono esami come la Risonanza Magnetica Funzionale che spesso evidenziano come i pazienti in stato vegetativo conservino perfettamente l’udito, quindi possono ascoltare tutto ciò che viene loro detto e identificano le fonti sonore e la voce di chi parla loro. Non possono rispondere, ma è stato dimostrato di recente che la loro corteccia cerebrale può esprimere l’intenzione di rispondere, pur non riuscendovi: si chiama incontattabilità , ma non incoscienza, tanto è vero che quelli che escono dallo stato vegetativo dopo anni (circa il 5% dei soggetti) lo confermano. Mi associo a quanto dichiarato dal Fulvio De Nigris della Casa dei Risvegli di Bologna, venerdì scorso su 'Avvenire', e cioè che non si parla abbastanza di questi problemi e di come vengono vissuti dalle famiglie coinvolte. E non penso solo alla tv. In vista del prossimo Sinodo sulla famiglia vorrei proporre un aspetto spesso trascurato che non riguarda i pazienti disabili, ma i loro coniugi. Occorre dire che la maggior parte dei pazienti in stato vegetativo non sono anziani, ma uomini o donne attorno ai 40-50 anni, persone con una famiglia, con un coniuge e dei figli. Vorrei che la Chiesa si accorgesse pienamente di quanti continuano a vivere il sacramento del matrimonio nella fedeltà pur avendo il loro coniuge gravemente disabile da anni. Vorrei che si parli ogni tanto anche di queste sofferenze riguardanti la vita matrimoniale e di come curare queste 'ferite' nell’«ospedale da campo» che la Chiesa deve essere secondo papa Francesco, senza nulla voler togliere a tutti gli altri feriti. Insomma, vorrei che queste famiglie vengano inserite tra i problemi che verranno affrontati nel prossimo Sinodo sulla famiglia. E mi piacerebbe tanto che il Papa ricordasse le sofferenze dei bambini che sono rimasti praticamente orfani per il fatto di avere un padre o una madre in stato vegetativo e che non possono gridare le proprie sofferenze perché non sanno neanche come verbalizzare le loro ferite, che ci sono e sono profonde, né le proprie attese di amore e di affetto come fanno invece altre categorie di 'sofferenti' (a volte fin troppo amplificati dai mass media). Sì, caro direttore, vorrei tanto che la Chiesa iniziasse a considerare queste famiglie ferite come un dono prezioso nell’«ospedale da campo» che la Chiesa è sempre più dovrà essere. Forse possono diventare un aiuto e un dono anche per tutti gli altri 'feriti'.
Fabio Sansonna, Monza
 
Ho letto con commozione e ammirazione la sua lettera, caro dottor Sansonna. Lei scrive da medico, da sposo, da padre e da 'esperto di umanità'. Sa – direttamente – di tante ferite, e davvero molto di quelle che qui evoca, legate agli stati vegetativi o di minima coscienza. Alla sua sapienza certo non manca la consapevolezza che l’amore non va mai sprecato. E rivolgendo a tutti, e in special modo alla nostra madre Chiesa, il suo appello sono sicuro che lei si rende conto di quanto la sua attesa sia già nel cuore del Papa. Ad Assisi, abbracciando le persone anche giovanissime gravemente disabili ospiti dell’Istituto Serafico, Francesco ce l’ha detto con dolcezza eppure con grande forza: «Queste piaghe devono essere ascoltate!». Perché sono le «piaghe di Gesù» e «sono qui e sono in Cielo davanti al Padre». E ieri, ripetendo quell’abbraccio e offrendolo ai malati portati a Roma dall’Unitalsi e ai volontari che li sostengono, ha chiamato i sofferenti «tesoro prezioso della Chiesa» e ha incoraggiato quanti stanno a loro vicini perché continuino a essere «quelli che non voltano la faccia da un’altra parte». Lei, gentile amico, con una passione e una delicatezza che toccano e lasciano il segno, chiede ai padri sinodali di seguire lo sguardo del Papa e di approfondirlo sino a vedere ferite che si tende a dimenticare: quelle dei figli di fatto orfani, quelle di chi con tenerezza e fatica, con speranza e fedeltà vive davvero ogni giorno della propria vita matrimoniale «nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia». So che la sua testimonianza e la sua preghiera non sono inutili. Lei spera che siano un dono per tutti nell’«ospedale da campo» della Chiesa. Io ne sono sicuro.
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