Per chi muore ci sia pura e semplice pietà
giovedì 24 settembre 2020

Il libro di Giobbe è in assoluto il libro dell’umano. Io ti conoscevo per sentito dire.

Quale prova si sottrae a questa dicotomia netta? Nessuna. Da una parte la presunzione di sapere e conoscere. Dall’altra l’esperienza reale, concreta, dentro la realtà. In fondo, tutta la nostra storia, individuale e collettiva, orbita attorno a questa differenza sostanziale.

Polare. Dallo scorso marzo, per i motivi che tutti oramai conosciamo tristemente, ovvero la pandemia di Covid- 19 che ha travolto vite e nazioni con la forza di un uragano invisibile e silenzioso, sono cambiate molte regole del nostro vivere. Dal distanziamento fisico alle mascherine, dalla didattica a distanza all’autoisolamento.

Quante parole, azioni, sono entrate a forza nella nostra vita, ribaltando, sconvolgendo abitudini e ritmi, andando a ridisegnare le nostre giornate, chissà ancora per quanto. Fra le normali attività che sono state stravolte dalla pandemia, c’è quella serie di azioni che si compiono normalmente quando si ha un proprio parente in ospedale.

Da mesi, e molti lettori lo sanno perché esattamente come Giobbe lo hanno vissuto sulla propria pelle, una famiglia che si ritrova con un congiunto in ospedale è costretta a sacrifici enormi, se non disumani. Chi come me aveva solo sentito parlare del divieto di visita in ospedale ai propri parenti non si poteva rendere veramente conto. Sta di fatto che oggi, in quasi tutti gli ospedali italiani, viene praticamente reciso il rapporto tra l’individuo ricoverato e la sua famiglia, in maniera assolutamente generalizzata, non solo per i malati di Covid-19. Le poche concessioni che si riescono a ottenere, perlopiù dettate dalla magnanimità del personale medico e paramedico, si sostanziano nell’utilizzo del telefonino, per chiamate o videochiamate.

Nessuno vuole entrare nel merito di questa condizione attuale: se la scienza ha reputato giusto applicare questi limiti, avrà le sue ragioni. Ma la scienza deve allo stesso tempo prendere atto di una cosa, se non vuole retrocedere a meccanica dei corpi, a qualcosa che nulla ha a che fare con noi esseri umani. Mettetevi nei panni di un uomo di novant’anni. Un uomo che nel giro di appena un mese perde progressivamente il controllo del proprio corpo, che non riesce più a mangiare in autonomia, che smette anche di parlare.

Un uomo assistito dai propri figli, dalle persone che ha messo al mondo, che ha sempre amato. Riamato. Da un momento all’altro, strappatelo dalla sua casa, toglietegli dalla vista tutto quello che conosce e di cui si fida. E poi mettetelo in una stanza che non ha mai visto, in mezzo a persone che non conosce, senza avere più attorno quello e quelli che ha avuto per tutta la vita. A quale trauma psicofisico è costretta una persona che vive tutto questo? L’amore familiare, la fiducia, la confidenza, tutto questo può essere considerato un orpello? Qualcosa di sostanzialmente superfluo rispetto alla cura medica?

Chi la pensa a questo modo, a prescindere dalla sua professione, deve interrogarsi profondamente. Perché non siamo ingranaggi di carne. Perché un uomo provato dalla malattia, semmai, ha maggiore bisogno dei suoi affetti. Senza contare che in molti casi i ricoveri, soprattutto di anziani, diventano un congedo definitivo da questa vita. Egregio Ministro della Salute, Roberto Speranza, senza compromettere i protocolli di sicurezza dettati dal Covid- 19, permetta alle famiglie di assistere i propri cari, e di salutarli nei loro ultimi istanti di vita terrena. Trovi assieme ai suoi collaboratori un modo. Prima di tutto si tratta di pietà. Proprio di quella.

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