giovedì 16 maggio 2013
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Qualcuno a Foggy Bottom, dove ha sede il Di­partimento di Stato americano a Washing­ton, ha riesumato a mezza voce un vecchio proverbio, locking the stable door after the horse has bolted, che grosso modo – qui si parla di ca­valli e non di buoi – equivale al nostro 'chiudere la stalla quando i buoi sono scappati'. Perché que­sto e non altro è il tardivo invio di marines a pre­sidiare il confine caldo del Nordafrica: una ma­croscopica ammissione della miopia con cui Wa­shington ha gestito l’affaire libico, a cominciare dall’imbarazzante balletto di versioni attorno al­la morte dell’ambasciatore Chris Stevens, ucciso da un commando durante l’attacco al consolato americano di Bengasi l’11 settembre 2012. Potranno 200 marines dislocati a Sigonella e un paio di unità di pronto intervento fungere da gen­darmi in uno scacchiere tormentato e instabile come quello che va dalla Siria al Polisario, dal Ma­li alla Somalia come per decenni fecero i parà fran­cesi a tutela delle vaste colonie africane? Certa­mente no. L’errore, anzi, gli errori stanno a mon­te e due realtà scolpite con durezza ci stanno a guardare: quella siriana e quella libica. La prima, da due anni una deriva incontrollata e prigio­niera dei veti incrociati di Russia e Cina, nonché dalla scarsa volontà americana di intervenire sul campo dopo gli insuccessi in Afghanistan e in I­raq; la seconda, un esemplare paradigma di u­na rivoluzione che l’Occidente – ma soprattut­to la Francia – ha sostenuto dapprima con mo­tivazioni umanitarie, ma che rapidamente si è mutata nel disegno di rimuovere Gheddafi dal potere, inaugurando nell’antica colonia italiana una democrazia su modello occidentale. Tuni­sia, Egitto, Giordania, Yemen, Marocco, Bahrein, tutto il fronte del Maghreb in sommovimento facevano ben sperare, e l’illusione di un proces­so di democratizzazione del mondo arabo sem­brava a portata di mano. Si trattava in tutta evi­denza di una collettiva distorsione di parallasse, quella Wunschvorstellung che Schopenhauer ad­ditava quale ingannevole percezione del mon­do veicolata dalle proprie aspettative più che dalla nuda realtà delle cose. Perché la realtà, in una Libia dove predominano i conflitti tribali (e religiosi), dove la violenza pri­vata e la divisione in fazioni armate sono di casa, dove si assedia il ministero degli Esteri a Tripoli con mezzi blindati e dove si fa esplodere un’auto­bomba nei pressi di un ospedale a Bengasi, dove è tuttora impossibile costituire un corpo di poli­zia e riorganizzare l’esercito è quella di un Paese senza guida e dall’incerto futuro. Basti pensare al truce scenario che si prospetta confrontando la si­tuazione in Cirenaica con quella in Tripolitania: a Bengasi si scende in piazza per protestare contro le milizie islamiste e i jihadisti che impediscono l’affermarsi di uno Stato di diritto e il ritorno a u­na convivenza civile accettabile; a Tripoli è anco­ra vivo lo scontro fra fazioni e tribù fedeli a Ghed­dafi e militanti della rivoluzione. Quanto basta per accendere una guerra civile e strozzare sul nasce­re l’avvenire di un Paese dalle vastissime risorse naturali e dalle grandi possibilità di crescita. E c’è una terza realtà, quella del Fezzan, l’immensa area desertica che confina con Ciad e Niger, da secoli crocevia di carovanieri berberi, oggi affol­lato scalo di transito del jihadismo subsahariano dopo che l’intervento francese nel Mali (peraltro il primo dell’era moderna quasi totalmente privo di immagini e di testimonianze dirette) ha impo­sto al qaedismo di cercare rotte di comunicazio­ne meno battute. Ed è proprio questo il male o­scuro della Libia e insieme – come denuncia la stampa americana – the bitter harvest, l’amaro raccolto dell’Occidente: ritrovarsi cioè con la più folta succursale di al-Qaeda nel cuore del Medi­terraneo, a un passo dal focolaio siriano e dalle fra­gili repubbliche tunisina ed egiziana, ghermite e assediate dal più intollerante dei salafismi. Un male oscuro che nessun contingente di marines potrà guarire, perché figlio e specchio delle mio­pie americane e di molta ignavia europea, attrat­ta dalle prospettive di buoni affari più che dall’i­dea di cooperare alla rinascita democratica del mondo arabo. E presunzioni e affari, come si ve­de, non bastano.
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