martedì 10 settembre 2013
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Gentile direttore,
in pochi giorni due tragici avvenimenti di sangue mi hanno scossa. La psichiatra accoltellata a Bari e la ginecologa uccisa intenzionalmente domenica sera in terra bergamasca. Sono colpita, amareggiata, commossa come cittadina, donna e medico. Entrambe le colleghe sono state uccise mentre svolgevano il loro lavoro: una in studio, l’altra mentre soccorreva un ferito in strada. Una colpita dalla follia della malattia mentale, l’altra dalla follia della violenza. Eppure, se sei un vero medico (non dico un bravo medico, perché un po’ tutti sbagliamo), dovunque sia richiesto il tuo lavoro, tu ci devi essere. Ti devi fermare. Devi soccorrere. Lo richiede non solo il giuramento fatto alla proclamazione della laurea, ma la tua coscienza. Ti devi fermare oltre l’orario di lavoro, per strada se necessario, in montagna, al mare a salvare i bagnanti, di notte in Guardia medica ad ascoltare i malati mentali insonni, al Pronto Soccorso a placare le ansie dei genitori di bimbi malati. La tua coscienza lo richiede e se sbagli non ti perdona.
Sono colpita come cittadina di uno Stato civile europeo, perché morire sul posto di lavoro o facendo "solamente" il proprio lavoro è tragico e assurdo. Sono amareggiata come donna, perché la violenza negli ultimi tempi coinvolge sempre più le donne che, con i bambini e gli anziani, dovrebbero essere più tutelate nella vita sociale e professionale.
Sono commossa come medico, perché la sensibilità, la premura e l’attenzione delle donne-medico, porta le stesse a esser presenti dove il bisogno lo richiede. Senza limiti di orari, trascurando la stanchezza fisica o la famiglia, ignorando il pericolo presente nelle strade di notte, sopprimendo l’ansia e la paura che talvolta si presentano nel lavoro.
In queste ore si sono presentati ben 74mila aspiranti medici ai test di iscrizione di medicina in Italia. Solo circa un decimo supererà le prove e forse diventerà medico. Spero che in molti di loro, la scelta di questa bella e faticosa facoltà sia dettata dal desiderio di guarire i malati, di accompagnare tutti nella malattia, di sostenere le persone e la vita in tutte le sue forme, da quella nascente, come faceva la collega bergamasca, a quella sofferente nella malattia mentale come la dottoressa barese. E seguire, aiutare ogni vita, ogni essere umano, cittadino o profugo, legalmente iscritto al servizio sanitario o "clandestino", libero o in carcere, ricco o povero, come il giuramento di Ippocrate richiede. È un lavoro faticoso ma gratificante e bello!
Gentile direttore, se in Italia 74mila giovani hanno sognato di potersi mettere al servizio dei malati e dei sofferenti nei prossimi anni, vuol dire che possiamo ben sperare e che l’Italia genera ancora voglia di bene. E l’esempio di queste due dottoresse, dedite al lavoro sino al sacrificio della loro vita, sia di esempio per noi medici, che talvolta guardiamo l’orologio per chiudere in fretta l’ambulatorio o ignoriamo chi ha bisogno di un aiuto improvviso.
Elisabetta Musitelli - pediatra - Zogno (Bg)
Si dice, gentile dottoressa Musitelli, che fatti terribli e tragici su cui lei riflette "generano sgomento". Le sono specialmente grato perché, come somministrandoci un antidoto, ha saputo accompagnare quei due assassinii di medici, una psichiatra e una ginecologa, con un fatto di tutt’altro segno: la corsa alla Facoltà di Medicina di decine di migliaia di giovani. Un fatto che, nel giornale di oggi, raccontiamo anche nei suoi aspetti caotici e amari, ma che lei ci aiuta a leggere nel suo lato più luminoso: l’ininterrotta generazione in questo nostro Paese, a dispetto di cinismi veri o solo ostentati, di una gran «voglia di bene». Chi vuole farsi medico, infatti, non pensa soltanto e soprattutto a "sistemare" se stesso, perché sta compiendo una scelta di vita che, se autentica, è destinata a strutturalmente destabilizzargli, proiettandola verso gli altri, l’esistenza (mi è capitato spesso di pensare, e di dire, ad amici medici che il termine "pazienti" dovrebbe essere usato non solo per i malati, ma anche per chi li cura...). Non le nascondo, però, di pensare che questa è – dovrebbe essere – la solare e permanente condizione esistenziale e di coscienza non solo di medici, infermieri e di altre persone formate e votate all’«aiuto», bensì di tutti coloro che sono davvero e semplicemente umani. Mi viene da dire che il suo mestiere, gentile e cara amica, è una sorta di "amplificazione" del destino personale e comunitario che è proprio di ogni donna e di ogni uomo. Noi siamo complementari, e siamo sin dal primo inizio delle nostre singole vicende in relazione con almeno altre due vite, che in realtà sono i preziosi, unici, irripetibili e, sino a quel punto, ultimi anelli di una catena sterminata, lunga generazioni e generazioni, impalpabile eppure solidissima. Siamo "con". E siamo "per"... I medici come lei (e tutti coloro che con voi condividono la vocazione del servizio, e l’adesione generosa all’imprevedibilità del soccorso che non può mai essere negato) ce lo ricordano e ce lo dimostrano. Ancora grazie.
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