venerdì 6 maggio 2016
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Tra gli edifici diroccati e le strade ingombre di macerie circolava una sorta di passaparola in quei giorni tragici del maggio 1976: « Fassin di bessoi ». Da un capo all’altro del Friuli terremotato (45 Comuni rasi al suolo, un altro centinaio più o meno gravemente danneggiati, quasi mille morti, 20mila case distrutte, 100mila sfollati) i cronisti affluiti da ogni angolo del Paese registravano con aria interrogativa quel grido espresso nella ruvida e per quasi tutti incomprensibile lingua del posto, sentivano donne, uomini e perfino ragazzi che senza respingere la mano tesa dalla solidarietà italiana e internazionale mettevano l’enfasi sulla caparbia determinazione a risollevarsi, nel limite del possibile, con le proprie forze. « Fassin di bessoi », facciamo da soli, ripetevano giorno dopo giorno anche per dare coraggio a se stessi. Di piangere e di compiangersi non c’era neanche più il tempo, sicché una cosa si può affermare con tutta sicurezza oggi, a 40 anni esatti da quel 6 maggio: la rinascita del Friuli non è stata figlia delle lacrime. Sulle macerie di Gemona, di Venzone o di dozzine di altri borghi, e davanti alle bare dei loro morti, i friulani di lacrime ne hanno versate pochissime. È gente così. All’insegna del facciamo da soli ha preso corpo e si è rapidamente imposto il cosiddetto 'modello Friuli' di superamento delle emergenze. È chiaro che gli aiuti dello Stato non sono mancati né potevano mancare a fronte di una stima dei danni valutabili attorno ai 20 miliardi di oggi. Robusti interventi sono venuti dall’estero sia durante la fase dei soccorsi sia successivamente per la ricostruzione, ma se un’area sinistrata di quasi 6mila chilometri quadrati ha potuto tornare alla normalità nel giro di una decina di anni gran parte del merito va attribuito alla volontà delle popolazioni di ricostruire tutto 'dove era e come era' (anche a costo di numerare una per una le pietre del duomo di Venzone per ricollocarle poi al posto giusto) e alle scelte delle amministrazioni locali e della Regione di assecondare al massimo il volere dei cittadini. «Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese», aveva assicurato a una settimana dal sisma il presidente della giunta regionale Antonio Comelli. Le fabbriche per produrre e trarre risorse da destinare all’immane opera di ricostruzione, le case per permettere alle famiglie di tornare a vivere dove ognuna aveva le proprie radici, le chiese perché ogni comunità potesse ritrovare la sua anima e coltivare le ragioni della speranza, meditando sulle parole dell’arcivescovo di Udine monsignor Alfredo Battisti: «Il terremoto non è stato un castigo di Dio». Alla caparbietà solidale delle comunità friulane hanno dovuto piegare la testa la politica nazionale e le autorità di governo rappresentate in loco dal commissario Giuseppe Zamberletti, trovatosi a gestire un’emergenza abitativa che aveva imposto, soprattutto dopo le nuove scosse dell’11 e del 15 settembre, il trasferimento sulla costa adriatica di 40mila sfollati. Qualcuno fu allora tentato di usare – neanche troppo sottovoce – termini forti e fuori luogo come deportazione, ma in realtà il modello friulano articolato su tre capisaldi (ricostruzione come e dov’era, reinsediamento rapido, massimo decentramento decisionale a livello locale) si è mostrato vincente su tutta la linea. Non solo perché ha permesso il ritorno alla piena normalità in tempi incommensurabilmente più rapidi rispetto a quanto accaduto per altri terremoti. Non solo perché ha evitato dispersioni di famiglie e di singoli nonché lacerazioni del tessuto sociale con il sorgere delle cosiddette new towns, sempre (a parole) provvisorie, ma quasi sempre (nei fatti) definitive, e – queste sì – veri ghetti. Ma soprattutto perché la volontà del fare il più possibile da soli diffidando e respingendo intromissioni anche solo paternalistiche dall’alto o dal centro si è coniugata con la presa d’atto della necessità di lavorare di comune accordo a livello di aggregazioni locali, in un contesto di autonomia regionale che certamente ha dato una robusta mano. Se la rinascita esemplare del Friuli (esemplare per l’oculata gestione delle risorse, per l’efficienza e la serietà dei suoi attori) non è stata figlia delle lacrime ha tuttavia avuto ottimi genitori: il senso dello stare insieme come popolo, e la voglia di continuare a sentirsi comunità coesa anche durante, oltre e a dispetto della tragedia.
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