venerdì 29 novembre 2013
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Sono solo sette chilometri quadrati per un to­tale di cinque isolotti disabitati a nordest di Taiwan e a due passi da Okinawa, e proprio per questo il divieto posto unilateralmente da Pe­chino a volare sull’area al di sopra delle isole Senkaku (così le chiamano i giapponesi), dette anche Diaoyu (come fanno i cinesi), subito vio­lato da due bombardieri B 52 americani e da ie­ri anche da aerei militari giapponesi e sudco­reani non deve trarre in inganno: non si tratta di una mera disputa territoriale – peraltro in esse­re fin dal conflitto fra l’impero Meiji e l’esausta dinastia Manciù del 1894–95 – e nemmeno di u­na capricciosa impuntatura delle superpotenze americana e cinese.
La posta in gioco, come ve­dremo, è ben più ricca e insieme gravida di con­seguenze. Per comprenderlo dobbiamo porre lo sguardo sul nuovo corso della politica estera americana. Da almeno un anno il baricentro della Casa Bian­ca si è visibilmente spostato dal Medio Oriente al Pacifico. Qui, in questo vastissimo teatro do­ve più di settant’anni fa si consumò l’attacco a Pearl Harbor e la successiva disfatta giappone­se, gli interessi statunitensi poggiano da sempre sulla supremazia navale e sulla stretta tutela de­gli alleati giapponese, sudcoreano e taiwanese. Una sorta di cintura di contenimento della mu­scolare politica cinese e della grandi ambizioni di Pechino di porsi come grande e incontestabi­le player in tutta la zona costiera. A cominciare da quell’area di identificazione aerea di difesa, u­nilateralmente proclamata dalla Cina una setti­mana fa, uno specchio di mare ricco di gas na­turali (soprattutto lo shale gas, il gas da scisti bi­tuminosi, una sorta di metano ricavato dall’ar­gilla) e di aree pescose.
Non sottovalutiamo lo shale gas: in sé non è una novità, ma l’aumento delle estrazioni – e dei progetti di estrazione – da parte di tutte le grandi compagnie parlano chia­ro. Lo stesso ad di Eni, Paolo Scaroni, ammette: «Se non riduciamo il costo dell’energia con la competizione degli Stati Uniti vi assicuro che gli investimenti industriali qui in Europa non ver­ranno. O abbracciamo lo shale gas o abbraccia­mo la Russia. Io altre idee non ne ho».
Idee chiare sembra averle invece Barack Oba­ma, che con il contestato successo nei negozia­ti con l’Iran a Ginevra ha sostanzialmente stac­cato il biglietto di ritorno dal teatro mediorien­tale, dove la politica americana ha collezionato un’impressionante catena di insuccessi, dal­l’appoggio alla rivoluzione libica degenerata in una quasi ingestibile Somaliland al doppio col­po di Stato in Egitto culminato con il raffredda­mento delle relazioni fra Washington e Il Cairo, dallo stallo effettivo della guerra civile siriana al­lo strisciante califfato degli jihadisti di intona­zione qaedista che si snoda da Aleppo all’Iraq meridionale, fino a un Afghanistan denso di cu­pe incognite alla vigilia delle elezioni della pros­sima primavera.
Un biglietto di ritorno che contempla, cosa non secondaria, la drastica riduzione della dipen­denza energetica dal greggio saudita e delle pe­tromonarchie del Golfo a favore di un’autarchia – e chissà, secondo alcuni accorti analisti addi­rittura una sorta di futuro monopolio mondiale dell’energia proprio grazie alla produzione di shale gas. Come s’intuisce, la scaramuccia diplomatica at­torno alle Senkaku–Diaoyu nasconde e insieme svela una grande contesa Usa-Cina sull’energia e sul dominio delle fonti energetiche.
Politica che la stessa Pechino persegue nel suo forsen­nato shopping di terre coltivabili in Africa (il co­siddetto Land grabbing), di porti dove attracca­re navi porta-container, di aziende eccellenti (pensiamo alle tre Ansaldo in cerca di compra­tori) e soprattutto nell’audace riarmo della pro­pria flotta da guerra, per ora limitata alla sola portaerei Liaoning , ma un domani pronta a fron­teggiare adeguatamente l’onnipotente flotta a­mericana. «We are here to stay», siamo qui per rimanere, ha dichiarato il vicepresidente americano Biden al­la vigilia della sua visita a Tokyo, Seul e Pechino. «Anche noi», ha risposto la Cina. Parole da guer­ra fredda. Neanche tanto velate.
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