sabato 21 novembre 2009
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Per due malati di Aids in cura, in Africa altri cinque hanno appena contratto il virus. E solo un malato su tre riceve il trattamento necessario. Il bilancio del Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar in vista del 1° dicembre, Giornata mondiale dell’Aids, è amaro. Il numero di orfani e dei bambini contagiati cresce in maniera esponenziale, denunciano i vescovi, mentre l’aumento della fame conduce molti a ricorrere al sesso come mezzo di sopravvivenza. Ma a fronte di questo quadro drammatico i vescovi dell’Africa fanno due affermazioni nette: primo, che «la Chiesa non è seconda a nessuno nella lotta all’Aids in Africa, e nella cura ai malati». Secondo, che non esiste una «facile» soluzione del problema affidata alla pura distribuzione di profilattici: nell’eco di quanto disse il Papa in marzo in Africa, e che tanto scalpore destò in parte d’Europa.Ora la stessa affermazione viene dalla Chiesa locale, deposito delle esperienze di ospedali, parrocchie, missionari ogni giorno a contatto con la gente e con una malattia in molti Paesi onnipresente, quasi come una piaga endemica. Dall’interno di una denuncia drammatica – il contagio non si sta fermando, le cure non sono accessibili a tutti – neanche nella emergenza i vescovi dell’Africa cedono alla tesi della distribuzione dei condom come vero efficace rimedio.Non è, la loro, una visione ideologica. All’epoca dello "scandalo" delle parole del Papa e della reazione europea un ricercatore americano, il professor Edward Green, direttore del Progetto di ricerca sulla prevenzione dell’Aids di Harvard, in una intervista a "Il Sussidiario" confessò imbarazzato: «Sono un liberale sulle questioni sociali e mi è difficile ammetterlo, ma il Papa ha ragione».In realtà, spiegava il professore, in Africa si nota una associazione fra più elevata diffusione dei preservativi e più alti tassi di infezione. L’ipotesi è che lo stesso uso dei profilattici incoraggi comportamenti a maggiore rischio, nella convinzione di essere al sicuro. Di fatto, l’equazione "più preservativi, meno contagio" non pare funzionare, nelle statistiche epidemiologiche africane. Tanto che due dei Paesi coi più alti tassi di infezione, Swaziland e Botswana, hanno lanciato campagne contro la promiscuità sessuale, sulle orme dell’Uganda. La denuncia della Chiesa africana ribadisce dunque la non affidabilità del teorema occidentale che crede di risolvere la tragedia dell’Aids con la pura devoluzione di quantità industriali di preservativi – col gesto più facile e meno dispendioso. Che non funziona. Perfino le asettiche statistiche di Harvard smentiscono questa troppo semplice equazione. La posta in gioco in Africa, come ovunque, e ben oltre l’Aids, è educare gli uomini, mettere loro in mano le ragioni di un vivere più umano. Sembra quasi una costante oggi, nella cultura occidentale, il tentare di risolvere i problemi con rimedi estemporanei. Come con i figli. Limitare l’orario delle discoteche, vietare l’alcool ai minori, va tutto bene; ma non elimina una drammatica urgenza di educarli, quei figli, ad amare altro che un’ebbrezza. La questione dei preservativi e dell’Aids in Africa è un’altra faccia di questo tentativo di trovare scorciatoie "pragmatiche" e semplici per nodi grandi; di colonizzare un mondo diverso, con questi nostri schemi. Ricette troppo facili per quella complessità profonda che è, a ogni latitudine, l’uomo, e le ragioni del suo fare.
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