venerdì 1 aprile 2011
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«Amo il vostro modo di vivere e per questo sono partito. I Paesi arabi sono immobili. Forse ora cambierà qualcosa, ma ci vorranno anni». Sono le dichiarazioni di un giovane tunisino appena sbarcato a Lampedusa, testimone degli eventi epocali che stanno radicalmente trasformando la sponda meridionale del Mediterraneo. Sta emergendo una generazione che non si identifica con le proposte dell’Islam fondamentalista e non esita a sfidare regimi autoritari e corrotti in nome di un desiderio di libertà e democrazia troppo a lungo umiliato. La transizione che si è avviata è difficile ma promettente. Da qui bisogna partire per riflettere sui nuovi flussi migratori. Per affrontarli, al di là dell’emergenza e dell’improvvisazione, è necessario maturare una visione, comprendere gli avvenimenti e intessere relazioni amichevoli con Paesi che vivono un cambiamento forse irreversibile. Obiettivi impensabili se si è guidati solo dalla paura dell’invasione e dalla ricerca di azioni unicamente di contrasto. Andrebbe ricordato come, dopo il turbamento e le paure iniziali, i rivolgimenti verificatisi in Albania e nell’ex Jugoslavia abbiano prodotto effetti positivi nel nostro Paese. I profughi di ieri sono oggi nostri coabitanti in un tessuto di integrazione spesso riuscito. Ciò che manca, oggi, è un più generale sguardo solidale di simpatia verso i nuovi arrivati. Da troppi anni gli europei guardano con sospetto e antipatia le popolazioni arabe, tollerando il perpetuarsi di classi dirigenti illiberali. Oggi l’Italia è impegnata in un’opera di accoglienza che avrebbe bisogno di maggiore umanità e unanimità, ma anche di un’adeguata partecipazione degli altri Paesi europei. Manca una risposta comune a un fenomeno che è rivolto all’intero Vecchio Continente. Sollevare Lampedusa dal peso della prima accoglienza è urgente, ma senza disprezzare la domanda di chi cerca un futuro migliore. Sono giovani e giovanissimi. Ed è tutto il mondo dei migranti ad avere un volto giovane. L’età media delle popolazioni dell’Unione è di 40,6 anni, mentre quella degli stranieri è di 34,3. In Italia e Spagna la differenza cresce fino a superare i dieci anni. Un’Europa invecchiata ha estremo bisogno degli immigrati. Essi sono all’origine di effetti impensabili. Un rapporto dell’Anci rivela che un numero significativo di piccoli Comuni italiani si è rivitalizzato proprio grazie all’inserimento degli stranieri. In Calabria, Caulonia e Riace sono divenuti esempi europei di best practice – come ha mostrato un interessante documentario di Wim Wenders – per la scelta dei sindaci di offrire ai profughi curdi le case abbandonate dai migranti italiani tre o quattro generazioni fa. Un grande servizio è offerto poi dalle donne migranti, più della metà del totale. Lavorano a servizio della persona, come badanti, infermiere, collaboratrici domestiche. Tante famiglie italiane si reggono sul loro apporto, ma reperirle è sempre più difficile. E i contributi pagati da stranieri hanno risanato gli enti previdenziali nostrani. Gli immigrati, tuttavia, non costituiscono solo una risorsa economica. Contribuiscono al ringiovanimento della società e ravvivano tessuti relazionali esangui. Ciò non significa negare gli aspetti negativi o problematici dell’immigrazione. Sono sfide che richiedono connessioni e lavoro, per realizzare una convivenza non subìta, bensì costruita, pensata e voluta. In un’epoca che vede la differenza di ricchezza tra Nord e Sud crescere come mai in passato e farsi abisso, «è un’illusione pensare di vivere in pace, tenendo a distanza popoli giovani e stremati dalle privazioni», come ha osservato il cardinale Angelo Bagnasco. La sua esortazione a «coinvolgerci», come «unica strategia plausibile dal punto di vista morale ma anche sotto il profilo economico-politico», deve essere raccolta al più presto.
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