sabato 7 marzo 2009
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Con una boutade leggera e provocante si po­trebbe ormai proporre che l’8 marzo, tradi­zionale giornata della donna, vissuta da que­st’ultima con un senso di stanca insofferenza, sia riconvertita in giornata dell’uomo. Non certo per confondere identità sessuali o ruoli, alla manie­ra delle culture del gender, quanto per marcare una differenza, quella femminile, non ancora del tutto assimilata nell’universo maschile. Pronto, se mai, a ricordare questa fatidica data con una mimosa alla propria donna, salvo poi a guarda­re con sufficienza ed inquietudine il percorso so­litario della soggettività femminile, ormai con­sapevole dei propri mezzi simbolici e culturali e pronta a far valere, anche nelle stanze alte del po­tere politico ed imprenditoriale, i suoi differenti linguaggi. Sono sempre gli uomini, infatti, a mantenere nei loro confronti un atteggiamento contradditto­rio: da un lato le si desiderano tradizionalmente raccolte dentro l’ambito privato, anche quando di necessità fuoriescono per motivi economici, dall’altro si continua, in forme più o meno sotti­li di sfruttamento, a collocarle nella sfera pub­blica come delle 'icone'. Scelte o per le loro qua­lità fisiche - abilmente manovrate nel mercato pubblicitario e non solo - o per le loro caratteristiche 'quasi maschili', che le rendono idonee ad acce­dere in luoghi sino ad allo­ra riservati agli uomini, co­me la politica o i vertici del­le amministrazioni pub­bliche. Parte da questa incapacità a riconoscere e a rispetta­re la differente identità del­le donne, ormai più libere ed autonome almeno in Occidente (con tutto il ca­rico di responsabilità che questo comporta) ad inde­bolire la figura maschile (ormai è un dato cultu­ralmente e sociologicamente accertato), che o­scilla pericolosamente fra l’incapacità di rico­struire la propria fisionomia identitaria alla luce di un rapporto paritario con il soggetto femmi­nile, e il desiderio inconscio e potente di recu­perare l’antica supremazia. Che nasca da questo scompenso, che affonda le radici in una trama sociale spesso dilacerata, il ri­corso anche fra le mura domestiche della vio­lenza brutale e incontrollata sul corpo e sull’ani­ma delle donne? Quella violenza istintiva e bar­barica del maschio che, in guerra, uccide i ne­mici e violenta le loro donne... Se l’attuale società civile sta scompensando e ge­nerando pericolosi deficit di ethos condiviso, non si deve forse ripartire da qui, dalla ricostruzione della densità antropologica della relazione tra donna e uomo, che impone come i due partner dell’incontro si impegnino a riconoscere nell’al­tro una dignità di essere che genera rispetto? Negli anni 70 e 80 del secolo scorso è stato il mo­vimento femminile, di marca laicista ed anche cristiana, a lavorare culturalmente alla ridefini­zione simbolica di una soggettività a lungo mi­sconosciuta ed emarginata. È compito dell’uomo, oggi, rivedere con realismo la propria colloca­zione nella sfera privata e pubblica, che passa anche attraverso la riscoperta delle potenzialità virtuose che le relazioni tra i sessi sono in grado di costruire e di promuovere. Si impone così un cambio di paradigma cultura­le, quello capace di sostituire le dinamiche del conflitto con quella che in area anglosassone vie­ne chiamata pratica della 'negoziazione', e che può essere meglio qualificata come reciproca e­sigenza di custodire insieme la qualità dei rap­porti intersoggettivi attraverso la dialettica crea­tiva delle due differenze.
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