lunedì 17 giugno 2013
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L'«eccezione culturale», che il governo francese esige nel contesto del nuovo mandato che 117 paesi devono conferire alla Commissione Europea nella trattativa per il nuovo accordo commerciale con gli Stati Uniti, rappresenta un fatto significativo, dal punto di vista antropologico prima ancora che politico. Poi, di conseguenza, questa presa di posizione, a cui si è allineato anche il ministro italiano, assume anche un preciso valore politico nel contesto più ampio della discussione dell’economia occidentale. In questo accordo generale il ministro francese pone un’eccezione: la cultura, che non è valore liberalizzabile. In pratica la produzione audiovisiva, e non solo, non può essere sottoposta alle regole del libero mercato, ma può e deve essere tutelata. Come quella italiana, e di ogni nazione europea che rifiuti la liberalizzazione di una realtà e una dimensione che segnano la storia, il carattere, spesso gloria di una nazione. È una difesa della cultura nel suo specifico, non particolaristica, ma fondata su un principio sacrosanto quanto sempre più dimenticato: la cultura non è un valore come gli altri, e l’ormai dominante liberismo, che la subordina a leggi per definizione estranee alla cultura stessa, deve essere fermato, controllato, ridimensionato. Il governo francese ha il merito di avere sollevato una questione di fondo: non si tratta, in questo caso, di sciovinismo, a cui spesso i cugini d’oltralpe soggiacciono, ad esempio con scelte lessicali ridicole (balladeur in luogo del perfetto walkman, colpevole solo di essere inglese), qui si sta difendendo il valore della cultura, non mercanteggiabile. La produzione in campo audiovisivo di ogni nazione deve essere autonoma, tutelata, non esposta al puro rischio assoluto dell’economia liberista, pena la sua scomparsa. Affinché la battaglia non sia impostata male, e quindi in prospettiva perdente, va chiarito che si intende difendere la produzione di cinema, arte, spettacolo dal dominio assoluto degli Stati Uniti, il che non significa un rifiuto della cultura americana. Questo fatto è molto importante: dobbiamo tutelare e proteggere, come i francesi, la nostra musica e il nostro cinema, che devono poter esistere senza il vaglio schiacciante della pura ragione economica. Tutelarli non significa perdere di vista la realtà, demonizzare gli Usa: bene o male quarant’anni fa, mentre l’America faceva nascere i prodigi Bob Dylan, o i Beach Boys, o Janis Joplin, in Francia saltellavano Johnny Halliday e Silvie Vartan, e in Italia stornellavano Gianni Moranti e Orietta Berti. Non ho visto in questi ultimi tempi film del livello del Grande Gatsby (con Di Caprio) e negli ultimi anni in Italia qualcosa che potesse stare a tavola con Hereafter. L’«eccezione» è difesa di patrimonio, cultura e possibilità produttive, non disconoscimento della realtà. Italia e Francia hanno avuto grande cinema (molto più noi che loro), ma nel passato. Il cinema americano produce ancora gradi opere, e gli unici telefilm da vedere sono americani. Non si faccia autogol anzi harakiri, tipo Asterix contro Disney: Asterix è un fumettino da bistrot, Disney uno dei geni del cinema, creatore del cartone animato e riscrittore delle grandi fiabe dell’umanità. Questa deve essere una posizione contro una concezione rigidamente liberista della cultura e la conseguente egemonia americana in merito. Non antiamericanismo. E, soprattutto, se l’eccezione serve a finanziare film tremendi, come spesso accade in Italia, non rispetta, anzi contraddice i principi da cui nasce.
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