martedì 17 maggio 2016
Due anni fa il premier assicurò ad un giovane padre (che torna a scrivere ad Avvenire) una graduale svolta di giustizia nelle politiche familiari. Una lettera del bioeticista Colombo sulle unioni civili. Risponde il direttore Marco Tarquinio.
Renzi, quando arriva la svolta pro-famiglia?
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​Caro Matteo,torno a chiedere al direttore di “Avvenire” di poter dialogare con te. Sono passati due anni da quel nostro scambio epistolare tra coetanei – uno cittadino semplice, l’altro presidente del Consiglio, entrambi padri di famiglia – che dalla prima pagina di “Avvenire” rimbalzò all’attenzione di tutto il Paese. Era il 24 aprile del 2014, e si discuteva degli 80 euro in busta paga, che avrebbero tagliato fuori famiglie numerose e monoreddito come la mia. Allora mi scrivevi: «Dedicheremo, puoi esserne certo, una attenzione particolare al tema del fisco per le famiglie. È urgente che si diano risposte da troppo tempo disattese. So che tu pensi al quoziente familiare o, meglio, a quella sua versione italiana che va sotto il nome di fattore famiglia. Io penso che una risposta vada individuata presto e finalmente, dopo anni di chiacchiere, attuata. Con necessaria gradualità ma con decisione. È una questione di giustizia». A due anni di distanza, caro presidente, mi duole constatare che non ho visto progressi significativi. Ho scoperto (casualmente) che da quest’anno potrò aggiungere alla lista delle spese scaricabili i bollettini della mensa scolastica: nel mio caso, con tre figli, sono stati 600 euro solo nel 2015 (come non pensare alle migliaia di euro spesi negli ultimi anni e mai scaricati?). Eppure non riesco a essere soddisfatto nemmeno di questo piccolo passo avanti. Sarà che quello stesso giorno stavo prenotando il centro estivo più economico del mio quartiere (romano), per tenere occupati i miei ragazzi nel tempo interminabile in cui la scuola sarà chiusa: spenderò (solo per quello) 1.100 euro in sei settimane, e neppure un euro sarà scaricabile. In compenso, però, ho assistito con sgomento all’accelerazione con cui è stata approvata la legge sulle unioni civili, una legge che questo quotidiano ha definito, elencando gli errori che contiene, «una legge sbagliata». Quanto dovremo attendere ancora perché, nei confronti di famiglie come la mia, quelle definite nell’articolo 29 della Costituzione, una risposta giusta «venga individuata presto – come tu stesso mi scrivevi – e finalmente, dopo anni di chiacchiere, attuata»? Scusa la franchezza, presidente… ma la mia fiducia sta scendendo davvero ai minimi termini.

 
 
 

Stefano Roma

Caro direttore,
accusando con realismo e dignità il colpo dell’approvazione di una «legge sbagliata» sulle unioni civili, “Avvenire”, sin dal giorno dopo, ha rilanciato la necessità che il Governo rafforzi l’istituto del matrimonio e dia respiro alle famiglie attraverso sgravi fiscali, provvedimenti economici e servizi alle persone. Lo ha fatto con la propria penna o per voce di esponenti del cattolicesimo italiano. La strada suggerita è quella giusta: la “con-venienza” (cioè, il venire incontro a una esigenza umana elementare) di formare una famiglia anziché “unirsi civilmente” non la si instilla nei giovani solo a forza di ragioni (che non mancano, e sono robuste) e di testimonianze (tuttora numerose e persuasive), ma offrendo loro condizioni vantaggiose per decidere di sposarsi, mettere al mondo i figli e non far mancare ad essi opportunità formative, educative e lavorative. Più risorse per la famiglia non portano automaticamente a maggiore coscienza del suo valore personale e sociale né a più forte desiderio di famiglia, ma sono un modo concreto per incoraggiare gli indecisi (e tra i giovani sono molti) e sostenere chi ha già deciso. Ma vi è una condizione per evitare che questa strada – qualora, auspicabilmente, venga intrapresa dal governo Renzi – approdi a un nulla di fatto o peggiori la situazione di svantaggio economico-sociale per la famiglia. Ed è questa: cancellare dalla legge approvata ogni riferimento ad una possibile equipollenza tra la famiglia composta da un uomo, una donna e i loro figli e le diverse forme di convivenza affettiva sancite come “unioni civili”, marcando una netta e insuperabile differenza sociale e giuridica. Non è infatti un presagio peregrino né un vaticinio pessimistico il considerare – stante le voglie di “completa uguaglianza” gridate già poche ore dopo l’approvazione della legge Cirinnà-Lumia – che, una volta emanati dal Governo provvedimenti a favore delle famiglie, queste risorse vengano rivendicate (appellandosi a un malinteso principio di “non discriminazione”) anche per le unioni previste dalla legge, e tale dirottamento possa trovare sostegno in sentenze giudiziarie compiacenti o pressioni di organismi europei nelle decisioni che, in forza del riconosciuto principio di sussidiarietà, spettano al popolo italiano e ai suoi rappresentanti. La coperta delle risorse che oggi il Paese può mettere a disposizione è corta, e chi la tira con arroganza e prepotenza lascia al gelo chi è più discreto e delicato. Non spetta a me dire con quali strumenti l’eliminazione delle righe storte della legge ormai approvata, con le quali si offre agevolmente il fianco a una interpretazione giurisprudenziale che equipara di fatto – se non di principio – le “unioni civili” al matrimonio, possa essere efficacemente perseguita: se con un referendum per l’abrogazione parziale (solo degli articoli contestati) della legge, oppure con adeguate, tenaci e limpide “pressioni” sul Governo, che lascino trasparire come il giudizio politico su di esso da parte del “popolo della famiglia” (cattolico e “laico”) non può non tenere conto dell’uso improprio del voto di fiducia che ha di fatto impedito per ben due volte al libero dibattito parlamentare di apportare quelle necessarie correzioni al disegno di legge da molti – tra i quali “Avvenire” – auspicate, e condivise da non pochi deputati e senatori. Senza iniziative correttive della «legge sbagliata», ogni pur giusta richiesta di sostegno alle famiglie così come l’art. 29 della Costituzione le definisce mi appare come una pezza su una stoffa mal cucita che rischia di allargare lo strappo anziché porvi rimedio.
Roberto Colombo - Università Cattolica di Milano
Condivido, caro don Roberto, spirito e preoccupazioni alla base delle considerazioni che ancora una volta (anche se in questa occasione in forma di lettera) con la lucidità dell’accademico e l’impegno del cristiano mette a disposizione di “Avvenire”. E sono totalmente solidale con l’amico Stefano che, da giovane padre di famiglia, «due anni dopo» torna a interpellare direttamente il coetaneo premier. Come ho scritto qualche giorno fa in dialogo con il giurista Roberto de Miro d’Ajeta, ritengo che c’è molto da fare – e da fare bene – perché una legge “sbagliata” non diventi profondamente “ingiusta”. I lettori sanno già che, in particolare, vedo l’urgenza di fermare la spinta di quanti vorrebbero legittimare, attraverso la stepchild adoption, il commercio di gameti umani e soprattutto l’affitto di corpi di donna per le pratiche di maternità surrogata a cui ricorrono coppie eterosessuali (in maggioranza) e omosessuali. Bisogna insomma che si ribadisca e, per il futuro, si renda insuperabile il divieto di “commercio della vita” che la legge italiana prevede e alcuni magistrati purtroppo a suon di “sentenze creative” stanno disapplicando (e non mi stupisce che la dottoressa Cavallo, giudice da poco in pensione e protagonista di recenti e clamorose sentenze, interpellata come un oracolo sulla materia, abbia continuato, in queste ore, a negare persino l’evidenza…). Ma penso ovviamente anche alla necessità, che entrambi rimarcate, di disegnare con equilibrio delle normative che diano contenuto sul piano tributario e dei servizi alle speciali tutele che la Costituzione prevede per la famiglia fondata sul matrimonio (art.29) e per i figli (art.30). È una storica battaglia di questo giornale e pure in questi giorni le stiamo dedicando incessante attezione: la famiglia, soprattutto la famiglia con figli, continua a essere la grande dimenticata da una politica che da decenni sa fare promesse, ma ai fatti non passa mai. Renzi darà finalmente seguito concreto a ciò che annunciò sulla nostra prima pagina poco più di due anni fa? E perché i suoi consiglieri lo spingono a rinviare sempre le «risposte giuste» ai nuclei con figli? So, per esperienza, che da qui in avanti a livello normativo sarà più facile aggiungere che sottrarre. E so altrettanto bene che le famiglie italiane si aspettano ben di più di qualche “pezza”, perché meritano che finalmente cominci una rivoluzione… sartoriale. Anche calibrata, ovviamente graduale, purché autentica. Cioè all’insegna della dignità e della giustizia. Cioè affidata non solo e non tanto a bonus ballerini. Quanti ne abbiamo visti! E nessuno di essi ha mai “cambiato verso” alla penalizzante condizione della famiglia e al declino demografico del nostro Paese. Serve un cambiamento di logica, e di struttura, nelle politiche familiari di questo nostro Paese: quando si comincia?
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