mercoledì 20 novembre 2013
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Accusare Israele di essere il mandante del terribile attentato all’ambasciata iraniana a Beirut (23 morti e oltre 150 feriti) è esercizio talmente diffuso in casi simili da apparire scontato. Non ne se esentano infatti come d’abitudine gli Hezbollah dello sceicco Nasrallah e nemmeno Damasco attraverso il ministro dell’Informazione Omran al-Zoubi, come pure – ovviamente – tuona contro l’entità sionista (così viene chiamata Israele a Teheran) lo stesso Iran. Costoro danno per certo che il gruppo di ispirazione qaedista che si fa chiamare Brigate Abdullah Azzam (dal nome di un fondamentalista palestinese fondatore dei mujahiddin afghani morto in circostanze misteriose nel 1989 e a cui si sono ispirati Osama Benladen e il suo successore al–Zawahiri) sia, come dicono in Libano, una feuille de vigne, una più che trasparente copertura che nasconde le mani lunghe dei nemici di Damasco.Diagnosi – quella del trio siro-iraniano-hezbollah – non completamente erronea, non fosse che il fumo della propaganda e dell’ideologia che li obbliga a puntare il dito contro Israele finisce con il nascondere il più vasto reticolo di interessi e di ambizioni che sta dietro l’attentato. Che a nostro avviso – nella sua torva perfezione – va letto come un sinistro capolavoro di diplomazia parallela, che in un sol colpo invia molteplici quanto significativi messaggi al maggior numero possibile di interlocutori e proprio per questo difficilmente può essere opera soltanto di un pugno di jihadisti fanatici.

Vediamo perché. Colpire i quartieri meridionali di Beirut, dove Hezbollah è radicato e raccoglie vasti consensi, è un monito diretto al Partito di Dio, impegnato in Siria a fianco dei lealisti di Bashar al-Assad: attenti, dicono quelle autobomba, non siete invulnerabili, è la terza volta che vi colpiamo in casa, nonostante l’occhiuta vigilanza delle vostre milizie. Messaggio che rimbalza a Teheran, finanziatore e sostenitore principale di Hezbollah e principale alleato di Damasco. Ma la filigrana della strage porta direttamente anche al conflitto interreligioso fra gli sciiti iraniani, siriani e hezbollah e il mondo sunnita, dietro il quale s’intravede senza fatica il patrocinio di Riad e degli emiri del Golfo. Sono loro infatti a sostenere l’insurrezione siriana e sempre loro – sebbene ciò sia più difficile da provare – a consentirsi il rischio di giocare con il fuoco lasciando che i qaedisti (che pur sempre si rifanno a quella purezza coranica rivendicata dal salafismo e dall’ortodossia wahhabita, di cui i sauditi sono i ferrigni custodi) prendano terreno e crescano di ruolo nel mosaico siriano-iracheno. L’attentato di ieri giunge peraltro alla vigilia della ripresa dei negoziati di Ginevra sul nucleare fra Teheran e il Gruppo dei 5+1, il cui esito non è affatto scontato ma le cui prospettive (riduzione delle sanzioni in cambio del blocco dei progressi nella costruzione di ordigni nucleari) impensieriscono profondamente Israele, il cui dissapore nei confronti della politica americana nell’area ha ormai le dimensioni di un’aperta divergenza fra Netanyahu e Obama. In quest’ottica, diciamolo senza falsi pudori, è improbabile che a Gerusalemme si siano versate troppe lacrime per l’attentato all’ambasciata a Beirut. Ma ancor meno, ne siamo certi, se ne sono versate a Riad: nella sghemba ma efficacissima diplomazia mediorientale si ricorre spesso a segnali forti. Dietro ai quali si potrebbe anche ipotizzare (come fa il britannico Sunday Times) un’entente cordiale fra i sauditi e Israele che preveda un attacco congiunto contro Teheran. Nel caso i negoziati vadano (troppo) a buon fine. Solo ipotesi, naturalmente.

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