martedì 6 gennaio 2009
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Nell’ultimo giorno del 2008 Aldo Schiavone su Repubblica ha formulato una proposta per arrivare a decisioni condivise sulle questioni cruciali della bioetica, indicando con ammirevole chiarezza i presupposti dai quali egli ritiene necessario prendere le mosse. Si tratta di tre presupposti del tutto condivisibili e di estremo interesse, perché implicano l’accettazione, da parte di un autorevole studioso di esplicito orientamento laico, di alcuni punti nodali, che nei dibattiti degli ultimi anni i laici erano invece soliti trascurare, negare e in alcuni casi perfino irridere. Il primo lo formulerei con l’espressione: 'primato dell’etica'. Scrive Schiavone: «Il nostro è un tempo affamato di etica». Schiavone usa la parola 'etica' al singolare. La questione è cruciale. Solo un’erronea confusione tra valori 'culturali' e valori 'morali', contro la quale non dobbiamo smettere nemmeno un attimo di combattere, può indurci a pensare che l’etica (al singolare!) sia ormai andata irreversibilmente in frantumi. Gli uomini non possono rinunciare alla ricerca del bene (al singolare!), di un bene umano da tutti percepibile e da tutti condivisibile. È su questo fondamentale presupposto che si fonda non solo la nostra eguale dignità come esseri umani, ma la stessa possibilità universale di comunicazione reciproca tra di noi. Il secondo presupposto del discorso di Schiavone è quello della 'indisponibilità della vita', della vita altrui e della vita propria. Si tratta, sostiene Schiavone, di una regola «del tutto condivisibile», «assolutamente umana», che può essere assunta da credenti (che le daranno un fondamento religioso) e da non credenti (che le daranno un fondamento 'umanistico') e che proprio per questo va ritenuta – aggiungo io – l’unico possibile fondamento di un’etica (al singolare!) e di una bioetica (anch’essa al singolare), capaci di unire in un medesimo sforzo di riflessione e di azione cattolici e laici. Terzo e ultimo presupposto è quello della pervasività della tecnica, che sta rendendo evanescente la distinzione tra il 'naturale' e l’'artificiale', creando una sorta di 'zona grigia' tra i due ambiti: un presupposto sul quale si deve ancora riflettere a lungo, ma che appare in linea generale incontrovertibile. Su questi presupposti Schiavone fonda la sua proposta: sottrarre la 'zona grigia' in cui naturale e artificiale si confondono al principio dell’indisponibilità della vita e lasciare spazio all’autodeterminazione. «Il diritto di scegliere non violerebbe l’intangibilità della vita, ma ne tutelerebbe solo i confini dall’invasività di una tecnica ancora imperfetta». È condivisibile questa proposta? Nei termini in cui è formulata, purtroppo no. In primo luogo perché ha un limite empirico: nella stragrande maggioranza dei casi, i malati non rivendicano come diritto quello di potersi autodeterminare, ma quello di essere assistiti e di non essere abbandonati. Dietro molte perorazioni per l’autodeterminazione (ma non è certo il caso di Schiavone), si profila l’ambigua (anzi minacciosa) figura di un 'decisore', pronto a sostituire con la propria la (presunta!) volontà di morire del malato. In prospettiva bioetica questo è il vero e irriducibile scoglio contro cui naufragano le migliori intenzioni dei fautori della libertà di scelta. Il vero limite della proposta di Schiavone è però un altro. I dilemmi che sorgono nelle 'zone grigie' create dalla tecnica non si risolvono sospendendo il principio dell’indisponibilità della vita con un rinvio al 'diritto di scelta', perché nulla ci può garantire che anche la scelta possa non essere 'tecnicamente' deformata. Bisogna compiere uno sforzo (immenso, l’ammetto), per tornare ad individuare nel bene umano e nell’esclusiva vocazione 'pro vita' della medicina l’unica legittimazione delle pratiche biomediche. Questo è il cuore della questione. L’alternativa la indica, inconsapevolmente, Eugenio Scalfari nel suo editoriale su Repubblica del 4 gennaio, criticando il punto iniziale del ragionamento di Schiavone. Scalfari nega che nel mondo d’oggi ci sia una «grande richiesta di etica»; si tratterebbe, per lui, solo di una richiesta «retorica», cioè di una «simulazione di richiesta». Non so se Scalfari se ne rende conto, ma, se avesse ragione, ciò comporterebbe inevitabilmente che qualsiasi richiesta di autodeterminazione, anziché avere uno spessore 'etico', finirebbe per acquistare inevitabilmente il carattere retorico di una 'simulazione'. Ma è proprio dietro simulazioni di tal genere (ne è consapevole Schiavone?) che si sta riaffacciando, nei dibattiti sul 'testamento biologico' (e in modo nemmeno troppo nascosto) il fantasma dell’eutanasia.
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