martedì 3 febbraio 2009
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Lo chiamano "branco". È il nuovo protagonista delle cronache. Il nome con cui si va nominando un fenomeno che non si sa come chiamare. E allora i ragazzi che compiono cose infami li si chiama così: un branco. Di qualsiasi colore: italiani, romeni, extracomunitari. Come fossero dei nuovi barbari che salgono dagli scantinati delle nostre case e delle nostre province o che vengano da chissà dove. Nelle analisi dei cosiddetti opinionisti non si va al di là di qualche predica: una società della violenza; della sopraffazione; una società del possesso, e bla bla bla. Addirittura c’è chi, scandalizzandosi come fa Barbara Spinelli su La Stampa, chiama 'branco' anche i ragazzi che si radunano sotto casa dell’amico che ha compiuto una gravissima violenza (lo stupro di Capodanno) per dirgli che loro rimangono suoi amici. Li chiamano 'branco' e riversano tutto il loro scandalo su questi ragazzi colpevoli di crimini efferati, di bestialità e di violenze inquietanti. E con questo nome pensano di aver nominato il peggio della nostra società. Le analisi non vanno molto più in là. Lo sguardo preferisce non indagare oltre. Li bollano come animali. E via. Dando la colpa un po’ alla società, ai rigurgiti razzisti, schizzando accuse neanche tanto velatamente politiche. Tutto vero, probabilmente. Ma è poco. È troppo poco bollare il fenomeno come 'branco'. Ha fatto bene il Presidente Napolitano a intervenire dopo il più recente orrore, quello di Nettuno, a richiamare i responsabili educativi all’enorme sforzo da compiere per arginare questi fenomeni. Dunque, secondo il Presidente, c’è un problema educativo alla radice di questi problemi. Anzi, ancor più alla radice c’è il relativismo e il suo gemello deteriore, il nichilismo, come diceva ieri il cardinale Ruini nella sua conferenza al collegio San Carlo di Milano. Si pensa forse di eleggere queste tendenze a bandiere chic del nostro tempo senza dover poi pagare il dazio del loro impatto sulle giovani generazioni? Non ci si fermi dunque alla facile etichettatura. Alla facile condanna di atteggiamenti violenti. Si provi a ragionare, con appassionata lucidità, con urgenza e senza timore. Non si finga di credere che la violenza cieca che sorge tra gruppi anche eterogenei di ragazzi differenti per provenienza e formazione, venga da generali cause sociali, o per colpa di qualcuno nel campo politico avverso. C’è qualcosa che agisce nel ragazzo italiano, come nel giovane di colore o romeno: una legge della violenza che non trova più correzioni o argini. Si abbia dunque il coraggio di affermare che l’uomo, ogni uomo, se convinto di essere solo e slegato da qualsiasi legame tende inevitabilmente a organizzarsi in branchi. Che tali branchi siano nelle periferie degradate o nei salotti non fa troppa differenza, da questo punto di vista. Si abbia il coraggio di dire che la sistematica, continua e pervasiva distruzione di qualsiasi legame (religioso, familiare, solidale) avvenuta attraverso l’affermazione ad ogni livello del principio che recita 'io sono mio' è la inevitabile anticamera dell’organizzazione in branchi, in salotto o in periferia. Il ragazzo a cui si fa credere di essere l’arbitro assoluto della propria vita si organizzerà in 'branchi' di individui­arbitro, la cui unica norma è la soddisfazione di quell’idea: essere arbitri, padroni. Insisto, a costo di scandalizzare tanti 'benpensanti': non c’è differenza, in questo senso, tra il branco che si ritrova nelle sere desolate di Nettuno e cerca in modo debosciato l’emozione forte, e il branco che si costituisce per motivi di potere o di interesse in qualche salotto o circolo. Sempre branchi sono, individui­arbitro riuniti in gruppo per farsi forza. Un potente messaggio educativo si sta riversando in questi mesi dagli organi di informazione e di propaganda del nostro paese: tu sei padrone di te stesso, quando vivi e quando muori. Poi su quegli stessi organi ci si scandalizza della nascita dei branchi. Si dirà che ci deve essere un argine: il rispetto della legge, o di certi valori (fissati da chi?). Ma se convinci un ragazzo che per essere se stessi bisogna autodeterminarsi, per quale motivo egli dovrà poi assoggettarsi a una legge che lo limita o a una norma morale ? Lo farà solo se gli conviene, se non osta troppo al suo 'dominio'. Li chiamano 'branco', e intanto li nutrono. Perché l’individuo­arbitro facilmente diventa l’uomo lupo.
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