venerdì 11 settembre 2009
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Caro Avvenire,la riunione degli industriali che si è tenuta a Cernobbio può dare l’illusione aver dato una scossa all’economia nazionale, i partecipanti a quel convegno si sono detti ottimisti e disponibili a fare investimenti per rilanciare sia la propria attività sia il sistema Paese. Vedendo i nomi si scorgono sempre i soliti noti, quelli dei salotti buoni dell’imprenditoria e di quella grande industria il cui apporto al Pil nazionale è veramente minimo. L’imprenditoria, quella vera, formata dalle piccole imprese pare non sia stata neppure invitata a questi incontri, se c’era a Cernobbio non ce ne siamo accorti perché non abbiamo avuto notizie di quelle che erano le richieste di chi tira materialmente la carretta e stringe la cinghia, alla deriva nel mar periglioso denso di migliaia di ostacoli che costantemente vengono posti ora della burocrazia, ora dal fisco, ora dal sistema bancario e saltuariamente da chi si alza al mattino mette in testa di inventare qualcosa per sabotare il sistema produttivo italiano. Sono quelli a cui si riferiva Einaudi quando affermava che «migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli». Chi si dichiara disposto ad investire rappresenta una minima fetta del settore produttivo, i signori che hanno fatto affermazioni di questo tipo sono abituati a contare su un credito quasi illimitato dalle banche, e dalla Borsa. Non altrettanto si può dire della generica torneria Brambilla, sulla quale continuano a piovere richieste di rientro dei fidi.

Andrea Bucci, Torino

Lei, caro Bucci, mette in evidenza una duplice dicotomia del sistema economico italiano: da un lato la sovrarappresentazione della grande industria contrapposta alla difficoltà della media e piccola a far sentire le proprie esigenze e ragioni; dall’altro il diverso comportamento del sistema creditizio e il peso della burocrazia, assai gravoso per chi non può permettersi consulenti e l’utilizzo di leve finanziarie particolari. Ancora in queste ultime settimane si è riaccesa la polemica a proposito delle banche per il sentore diffuso di una stretta creditizia particolarmente dannosa per le imprese più piccole. Gli istituti di credito ribattono che in realtà non si è verificata alcuna contrazione del credito. Sta di fatto, però, che la caduta degli ordini e il fermo della produzione determinati dalla crisi economica, unite anche solo alla mancanza di un’ulteriore apertura di fido, può determinare la resa del piccolo imprenditore e la chiusura dell’attività aziendale. Occorre per questo uno sforzo congiunto non solo delle istituzioni centrali, quanto soprattutto delle diverse realtà del territorio: amministrazioni locali, parti sociali, piccole e grandi banche presenti. Assieme, però, a un cambio di mentalità degli stessi piccoli imprenditori. È vero: a guardare il nostro Paese sembrerebbe che ogni mattina si impongano nuovi lacci e cavilli e adempimenti che frenano l’attività d’impresa. Ma non è meno vero che quell’enorme patrimonio di spontaneismo imprenditoriale, di creatività e capacità di fare che rappresenta la prima ricchezza economica dell’Italia, ha pure bisogno di crescere, di maturare, di evolvere in qualcosa di più strutturato, maggiormente legato al territorio e alla comunità sulla quale insiste, capace di appoggiarsi e al contempo sostenere le strutture universitarie di ricerca per raggiungere un’eccellenza da far valere sui mercati mondiali. Spesso, troppo spesso, invece, i nostri piccoli imprenditori si comportano ancora come monadi: bravissimi magari a costruire "quel certo prodotto", a fare il loro business, ma scarsamente capaci di tessere rapporti, stringere alleanze, sfruttare sinergie e politiche di rete. In difficoltà, infine, a far valere il loro reale peso in una legittima rappresentanza di interessi. Diamo loro credito e possibilità di fare squadra.
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