sabato 14 marzo 2009
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Per una strana coincidenza del destino, a poche ore dalla presentazione del quinto Rapporto sulle crisi dimenticate realizzato da Medici Senza Frontiere (Msf), a Serif Umra – un remoto presidio sanitario del Darfur al confine col Ciad – venivano sequestrati alcuni volontari della medesima organizzazione umanitaria, tra cui l’italiano Mauro D’Ascanio, per la cui sorte si teme ancora in queste ore.  Vale la pena riflettere sul mutismo del sistema mediatico nostrano rispetto alle tragedie neglette, che salgono alla ribalta solo in circostanze estreme, come appunto quella del rapimento di un connazionale. Come affermava alla fine della sua carriera il grande Indro Montanelli in un’intervista rilasciata a Sergio Zavoli, «è facilissimo dire male del giornalismo, e lo fanno soprattutto i giornalisti». E come se non bastasse, rincarava la dose affermando che «spesso tradiamo quella che non chiamerò una ’missione’, perché la decenza mi vieta di pronunciare parole così virtuose, ma è pur sempre una professione fondata sul sentire civile e la consapevolezza morale». È questo il punto: nell’opinione pubblica vi è sempre più cognizione circa il deterioramento del sistema informativo, rispetto soprattutto ai comportamenti di un areopago che appare, nelle sue molteplici espressioni, anni luce distante dall’attualità mondiale. Basta dare un’occhiata al rapporto di Msf, presentato giovedì a Roma, per comprendere il malessere di una società civile che invoca un deciso cambiamento di rotta. Sarà mai possibile che nel 2008 la regione sudanese del Darfur abbia meritato solo 9 notizie sui nostri Tg, a parte quelle del dirottamento di un aereo a opera di un gruppo ribelle (10 servizi ad agosto) e l’accusa per il presidente Omar Hassan al Bashir di genocidio e crimini di guerra (8 notizie)? E tutto questo mentre a Carla Bruni è stato dedicato un racconto seriale televisivo di 208 puntate, o, invece, all’estate di Briatore e della Gregoraci venivano riservate ben 33 notizie? A meno che certi fatti di cronaca che avvengono nel Sud del mondo non vedano coinvolti uno o più connazionali, le notizie finiscono nel dimenticatoio. Ecco che allora per portare alla ribalta il dramma darfuriano bisogna ricorrere a 'testimonial' del calibro di George Clooney, come una sorta di specchietto per le allodole capace d’attizzare l’interesse di questa o quella testata. Si potrebbe dire che per fare centro sul pubblico l’informazione, soprattutto quella veicolata dal piccolo schermo, necessiti di una sintesi, quindi di una semplificazione, che la renda teatrale, all’insegna della banalizzazione e della spettacolarizzazione. Un processo questo che ha dato addirittura origine ad un nuovo genere televisivo molto diffuso, l’infotainment, neologismo inglese con il quale si indica l’ibrido tra informazione e intrattenimento, per cui si allestiscono dei contenitori dove vengono mescolati con disinvoltura sacro e profano. Conosciamo la risposta degli addetti ai lavori che sostengono a spada tratta le esigenze di un pubblico che pare aborrisca la complessità, le sfumature, le riflessioni sui grandi temi, indulgendo invece verso modelli scacciapensieri, semplici, dai contorni ben definiti, assimilabili alle scene dei teleromanzi. È una vecchia querelle che per essere risolta dovrebbe esigere l’assunzione di una buona dose di responsabilità andando al di là delle mere esigenze imposte dal mercato. Primum informare scrive in un suo recente saggio Zavoli, ricordando che «essere ben informati è la prima possibilità per farcela». A significare che la vera sfida nel villaggio globale – sì, quello dove menti giovani e bacate prendono il mitra sparando all’impazzata come se la vita fosse una fiction – sta proprio nel coniugare la sfera dei valori rispettando il rapporto costi-benefici. Adeguando, insomma, le scelte editoriali ai sani principi di cui volontari come D’Ascanio e tanti nostri missionari sono portatori. Essere informati prima possibilità per farcela. La sfida sta nel coniugare i valori con il rapporto costi-benefici
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