giovedì 14 aprile 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
Verrebbe da dire che siamo in un’epoca di grande creatività. Spuntano nuove espressioni che prendono la scena, si impongono nel dibattito. E verrebbe da dire: bello, un segno di fantasia. Nascono nuove espressioni, spesso colorite, rimbalzano sui media, sui social. E a volte ne sostituiscono altre. E verrebbe da dire: buon segno, una società viva crea sempre nuove espressioni per raccontare di sé. Succedono fatti, si esprimono genialità, iniziano fenomeni che introducono nuove espressioni nella vita. Un tempo nessun italiano avrebbe usato l’aggettivo "pirandelliano" poi è successo che il genio di Pirandello ci ha mostrato certe cose di noi e abbiamo coniato l’aggettivo. Oppure nessun italiano solo qualche decennio fa si sarebbe preoccupato troppo della propria "immagine". Si cercava l’eleganza che non è proprio la stessa cosa. Poi una serie di fenomeni legati anche alla diffusione pervasiva dell’uso di foto e video ha cambiato usi e preoccupazioni. E parole. In generale, è un buon segno quando nascono parole. Poche settimane fa una vetusta accademia come quella della Crusca ha accettato la proposta d’un ragazzino di coniar la parola "petaloso" e ci siamo divertiti e inteneriti in tanti. Ma una vocina ci avverte di tenere d’occhio l’esperienza e la storia. Quando nascono le parole, come per ogni cosa creata dagli uomini, ci sono sempre due possibilità: che ci avvicinino a una comprensione più viva del mondo ( e questo è il caso di "petaloso", si può dire) oppure che nascano per intorbidare le acque. E anche se suonano bene, possono coprire l’intento d occultare il vero invece di mostrarlo. La vocina della storia ci avverte: nei momenti di maggior dominio di tiranni sui popoli avvengono straordinarie invenzioni linguistiche. Ma quando sento iniziare a correre espressioni come "maternità surrogata" o più recentemente "traffico delle influenze" qualcosa mi stona. Perché non tutto è surrogabile, e la parola surrogato nella esperienza reale si usa per dire che non si tratta di una cosa originale, che vale un po’ meno, che so, un surrogato di succo d’arancia o di un materiale o di un cibo. Qualcosa che sostituisce, certo, ma che non è la cosa originale. E finché si tratta di un succo, di un paté lo posso pure capire (anche se ora tutti fanno i puristi, però solo in cucina), ma quando si tratta di cose fondamentali della vita umana, davvero pensiero che si possano surrogare? E cosa comporta tutto questo? Non a caso gli inventori di queste termini operano sempre con "astrazione", ovvero quel che Péguy e Pasolini chiamavano il male della nostra epoca. Non dicono madri surroganti, gravidanze a noleggio, occultano che si tratti di persone, di corpi con nome e cognome. Si parla della cosa in astratto: la maternità. Si occulta l’uso del corpo di una persona, di una donna che si presta (a che prezzo in quattrini e in psiche?) a generare un figlio come atto surrogato mentre in realtà l’originale è invece proprio quello che lei sta compiendo. Quando le espressioni occultano e rendono astratte le cose, specie le realtà umane, occorre sempre diffidare. Quando Joseph o Kinu invece di essere chiamati con il loro concreto nome vengono indicati come "razza inferiore" o "nero" o "profugo" diventa più facile manipolare le opinioni e le azioni su di loro. Quando si inventano espressioni così generiche, specie in campi come il diritto, lo spazio per la prepotenza, per l’arbitrio sulla vita si allarga pericolosamente. La comunicazione può decidere se servire il potere o la verità. Se accettare e divulgare espressioni comode per non affrontare la realtà o addirittura per violarla. Oppure resistere, e inventarne altre. E per farlo occorre un interesse al vero almeno pari a quello di chi inventa espressioni in nome del potere e della astrazione.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: