martedì 22 marzo 2016
Un colpo di sonno ha spezzato la vita delle 7 studentesse italiane. Editoriale di Marina Corradi.
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Elisa, Francesca, Elena... un vertiginoso dolore
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Erano le quattro del mattino e a bordo quasi tutti erano caduti addormentati, sfiniti di stanchezza, e anche dalla bellezza di quella notte a Valencia, illuminata dai fuochi d’artificio, colma di musica, e già pregna del primo alito della primavera. Si può immaginare una comitiva più felice di quella del bus di Tarragona? Vent’anni, la festa, le luci, gli amici, forse l’ amore, in una notte di marzo sul Mediterraneo. E Valentina, Francesca e le altre undici, le pensiamo assopite, nel rombo monotono del motore del grosso autobus; strette fra loro, l’una con la testa su una spalla dell’altra. Come accade in gita, a scuola, fra ragazzi, quando la stanchezza ammutolisce le confidenze e le risate, e resta solo il respiro regolare del sonno sulle facce ancora quasi infantili.E d’improvviso l’autobus che sbanda, in un fragore orrendo di vetri infranti e di acciaio, e stridere di freni, mentre tutto che si capovolge: solo un istante per pensare a casa, ai genitori, in un rimpianto incredulo e infinito – e poi il buio.Sono morte così in tredici ragazze, sette italiane, le altre da tutta Europa. Studentesse, quasi tutte, di Erasmus, il programma che porta gli studenti all’estero, l’atteso e desiderato tuffo nel mondo da soli, da "grandi". Le foto delle vittime scorrono sulle tv nelle case, nei bar, e la gente zittisce e resta a guardare, commossa. Sono così belle Elisa, Elena e le altre. E che limpidi occhi ridenti ha Francesca, genovese, cattolica impegnata, studentessa di Medicina – che già era andata volontaria tra i poveri in Africa e in Romania. Era una scatola colma di speranza e voglia di vivere, quel grosso bus bianco e rosso che ansimava sulla strada del ritorno a Barcellona. Su delle ragazze addormentate dopo una festa, sui progetti e sulle attese, è piombata rapida una feroce ombra: in un attimo, solo per un colpo di sonno dell’autista, l’autobus, da bestione ubbidiente che era, si è ribellato, la cieca mole scagliata a tutta velocità oltre il guard rail. E ciò che turba noi che in tv guardiamo quei bei volti è che la morte, stavolta, abbia scelto il culmine della giovinezza, della bellezza e della gioia. L’istante traboccante di futuro e attese, la speranza intoccata dei vent’anni, in una notte di quasi primavera.Non osiamo pensare al dolore in quelle case, allo schianto di quel pugno abbattutosi su tredici porte. In un attimo, quei bei volti da cui ci si aspettava solo notizie liete – lauree, fidanzamenti, matrimoni, lavoro, figli – inghiottite nel buio. Non ci sono parole, ma solo preghiere: per quei padri, quei fratelli, e per quelle madri che ieri hanno avvertito in sé uno strappo lacerante di viscere, ben più doloroso del parto.Nel dolore per i begli occhi spenti di Elisa, Elena, Valentina e delle altre, dolore in cui ci riconosciamo in tanti – genitori, nonni, insegnanti, tutti coloro che guardano a dei ragazzi di vent’anni con affetto e speranza – ci ritroviamo davanti allo schiaffo della morte: che è ancora più secco, se chi muore è nel fiore degli anni, nel culmine della felicità.E come sempre, davanti alla morte restiamo inermi e atterriti. Noi non sappiamo, non possiamo immaginare perché tanto dolore, in un solo vertiginoso secondo, per tante famiglie, insieme. I giornali parla di un oscuro Caso, ma noi non possiamo chiamarlo così. Noi cristiani non crediamo al Caso ma un destino, al disegno, per ciascuno di noi, di un Dio che ci ama e ci conosce. Ci ama, e ci rapisce i figli in un momento, mentre dormono dopo una festa, come bambini? Sentiamo attorno e anche nel fondo di noi questa cocente domanda, questa ribellione. Ma la morte che in questa settimana celebriamo ci torna in mente e ci zittisce: di quale morte è morto Cristo, il primo dei figli di Dio, sulla Croce. Allora avvertiamo la densità grave di un mistero che non possiamo pretendere di capire. Quegli occhi ridenti, quei bei visi ci domandano di pregare per dei genitori affranti; ma, forse, e anche, più per noi che restiamo quaggiù, che per le ragazze morte a Tarragona. Loro partite fanciulle, loro che oggi, come promette Paolo ai Corinzi, vedono non più «come in uno specchio, oscuramente», ma, infine, faccia a faccia.
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