mercoledì 13 novembre 2013
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La pace si può fare per finta o sul serio. Francamente, stando a quanto è avvenuto martedì sera ad Entebbe, in Uganda, tra il governo di Kinshasa e i ribelli del famigerato movimento congolese M23, qualche dubbio sorge spontaneo. All’ultimo momento, infatti, le parti non si sono messe d’accordo sulla titolazione da dare all’intesa che avrebbe dovuto porre fine a oltre 18 mesi di scontri sanguinosi nel Nord Kivu, tormentata regione nel settore orientale della Repubblica Democratica del Congo. La ripresa delle trattative è stata addirittura rinviata sine die. D’altronde, la decisione di deporre le armi da parte dei ribelli era avvenuta a seguito di un’offensiva, avvenuta nei giorni scorsi, dell’esercito governativo congolese, affiancato da una brigata di caschi blu dell’Onu. Insomma, stando al comportamento degli insorti a Entebbe, pare evidente che si sia purtroppo trattato solo di un escamotage per prendere tempo. Col risultato che il leader militare del M23, Sultani Makenga e i suoi seguaci sono ora in Uganda a piede libero e continueranno a rappresentare una minaccia per l’ex Zaire.In effetti, erano molti gli scettici che giudicavano l’intesa di Entebbe una "tregua" tra le parti, ritenendo che vi fossero già le premesse per una ripresa delle ostilità. Una soluzione strappata con la via delle armi, senza fare luce sulle responsabilità di chi ha causato morte e distruzione nel Kivu, dispiace scriverlo, non convinceva affatto. In particolare, vi sono almeno tre nodi da sciogliere, sotto il profilo negoziale, come peraltro rilevato dalla società civile congolese . Anzitutto la questione dell’amnistia a favore degli esponenti del M23; la loro possibile reintegrazione nei ranghi nell’esercito regolare congolese e l’inquadramento dei vertici politici della ribellione nella vita politica del Paese. Questo, in sostanza, significa che dovrebbe essere istituita una commissione internazionale, davvero super partes, in grado di valutare caso per caso, in forma individuale e non collettiva, se vi sono sufficienti garanzie perché queste tre misure possano essere applicabili.Detto questo, sarebbe illusorio pensare a una soluzione della crisi congolese prescindendo dalle vere ragioni che hanno sconvolto in questi anni il settore orientale dell’ex Zaire. Qui il riferimento non è solo agli altri gruppi armati ancora in campo, come le varie fazioni dei Mayi-Mayi o delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), per non parlare della galassia di bande armate, molte delle quali dedite ai saccheggi e ad altre attività eversive. In questo inferno di dolore, la pace sarà ancora un miraggio fin quando verrà consentito al Ruanda e all’Uganda di ingerire negli affari interni della Repubblica democratica del Congo, sostenendo la lotta armata in territorio congolese, per avere accesso alle ricchezze del sottosuolo. L’ex Zaire, è bene rammentarlo, possiede il 34% delle riserve mondiali di cobalto, il 10% di quelle di oro, oltre il 50% delle riserve di coltan (lega naturale di columbio e tantalio), oltre ad ingenti risorse di diamanti, uranio, cassiterite, per non parlare del petrolio. Eppure, nella ricca regione del Kivu, solo il 16% della popolazione dispone dell’acqua potabile in casa e soltanto il 4% può godere i benefici dell’erogazione di energia elettrica.Una cosa è certa: oltre agli aspetti politici e militari, sarà davvero possibile parlare di pace solo quando coloro che si sono resi responsabili di crimini di guerra, di crimini contro l’umanità e di violazioni dei diritti umani saranno chiamati a rendere conto dei loro atti davanti alla giustizia. Un tema, questo, che non riguarda solo i "signori della guerra", ma anche esponenti di rilievo delle oligarchie regionali e certe compagnie straniere che da anni fanno il bello e il cattivo tempo.
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