giovedì 10 settembre 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
L’ultimo è un ambulante senegalese di 32 anni, sposato e padre di un bambino. Accusato di violenza sessuale, giurava di essere innocente. Si è ammazzato nel carcere di Teramo, aspirando il gas della bomboletta dei fornelli. Il penultimo era un tunisino, morto dopo quaranta giorni di sciopero della fame e della sete, a Pavia. Un altro, uno fra i tanti, era italiano, finito dentro per droga, in attesa di trattamento psichiatrico. La notte del 12 agosto s’è impiccato nella sua cella, a San Vittore, nel cuore della Milano deserta per ferie. Si chiamava Luca, aveva 28 anni. Le notizie dei suicidi in carcere prendono poche righe sui giornali, quasi fossero un fatto ineluttabile. Però l’ambulante africano di Teramo è il quarantanovesimo suicida, quest’anno, nelle prigioni italiane.Il dato è del sito di informazione carceraria "ristretti.it", che di ognuno ricostruisce nome e storia. Che riporta le testimonianze di carcerati in vari istituti italiani. E fra queste righe la cifra di oggi, 64 mila reclusi in Italia, record dal dopoguerra, acquista uno spessore drammaticamente concreto: «Tre persone si ritrovano a dividere in undici metri quadri, nei quali sono sistemate le brande, gli stipetti per il vestiario e un piccolo bagno: ecco che lo spazio calpestabile fa incarognire tutti, riducendoli al pari di animali rinchiusi in gabbia», scrive uno. «Nel mio letto a castello a Venezia avevo imparato a isolarmi dalle altre otto, nove, dieci compagne di cella: cuffie con la musica nelle orecchie per leggere, tappi di cera e maschera sugli occhi per dormire», racconta un’altra. Cronache di una invivibilità che aumenta, di nervi sfatti, di pensieri disperati che una notte dopo l’altra acquistano consistenza, diventano progetti, e poi realtà. E quei 49 suicidi ad oggi, con questo stesso ritmo, si potrebbero fare 70 alla fine dell’anno. Con una incidenza superiore di 21 volte a quella della popolazione italiana. Con una relazione, rintracciabile nei numeri, fra l’aumento periodico dei suicidi e quel sovraffollamento, quel ritrovarsi quasi a calpestarsi l’un l’altro, senza un minuto di silenzio e di pace. («Stiamo ammassati come in una discarica», scrive un altro). E allora le storie di questi quarantanove non sono più private tragedie, ma diventano come un grido che sale dalle mura alte e cieche attorno alle carceri. Come se, passata quella porta, ci fosse un altro mondo; dove formalmente si è uomini, titolari di tutti i diritti proclamati e benedetti dalle Carte della democrazia occidentale; ma, in realtà, non si è più uomini proprio come gli altri. Dove un ragazzo che ha bisogno di cure psichiatriche, lasciato solo, si impicca; dove uno straniero, per gridare la sua innocenza, si lascia morire di fame e sete.Quale altro mondo c’è, dietro quei portoni blindati e sorvegliati? Le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione, dice la Costituzione. Ma come si rieduca, fra uomini stretti come in gabbia, avviliti da quella promiscuità in cui il senso di sé, assediato, vacilla? Come si spera, nei raggi fatiscenti e strapieni di san Vittore? Dal Veneto un detenuto racconta on-line che la sua cella pullula di scarafaggi. Lui una notte ne mette in fuga una famiglia, e ne fa prigioniero uno. Lo chiude in un bicchiere; si fa, di quell’insetto, secondino. Ma, poi, comincia a parlargli. Il miserabile prigioniero infine gli fa pena, e lo libera. Breve storia di sapore kafkiano in un carcere italiano. Per chi la legge, un pugno nello stomaco. Uomini o no, in quelle celle? Uomini, sempre. Ma è come se tra quelle mura proprio questa certezza radicale venisse ad essere incrinata. 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: