
elisa pedrani / fotogramma.it
«Non ho votato per il referendum sulla cittadinanza perché voi fate tutto troppo facile, perché cinque anni sono troppo pochi, soprattutto per chi viene da culture in cui la donna è sottomessa». Così mi diceva, all’indomani del voto, un’amica arrivata irregolarmente dall’Africa trent’anni fa per fare la badante e che qui in Italia ha studiato, si è laureata, sposata, ha avuto una figlia oggi maggiorenne, ha faticosamente acquisito la cittadinanza italiana e lavora come mediatrice culturale in un ospedale. Ragionamenti non molto diversi devono aver fatto gli elettori di “Barriera Milano”, quartiere popolare di Torino, dove gli ex operai delle tante fabbriche abbandonate ormai da decenni, si sentono – come il Clint Eastwood del film Gran Torino – accerchiati da un’immigrazione multiforme che insidia la loro identità e che al referendum sulla cittadinanza hanno dato il 40% al No (quattro volte di più dei No ai quesiti sul lavoro).
È evidente – sul punto convergono tutte le analisi del dopo voto – che i promotori del referendum non sono riusciti a convincere gli elettori del fatto che gli altri requisiti (oltre ai cinque anni di presenza regolare in Italia) per ottenere la cittadinanza (lavoro, conoscenza della lingua, assenza di precedenti) sarebbero stati valutati con serietà. È passato il messaggio che, dopo cinque anni, la cittadinanza sarebbe arrivata quasi automaticamente. Inutile ora recriminare sulle responsabilità di questa insufficienza. Importa, piuttosto, farsi carico delle preoccupazioni che stanno dietro questa solenne bocciatura referendaria: il timore di riconoscere la cittadinanza a persone i cui mores sono troppo in contrasto con quelli europei e i nostri valori costituzionali. Queste paure non possono essere aristocraticamente ignorate e snobbate. Bisogna farsene carico e cercare di darvi risposta, senza rinunciare al tentativo di dare più diritti a chi davvero si è faticosamente inserito nelle nostre comunità, cercando con dignità un futuro migliore per i propri figli e contribuendo ogni giorno alla stanca economia del Paese. Questo tentativo può partire da un punto fermo: i timori che percorrono i ceti italiani più deboli delle nostre città riguardano soprattutto gli adulti stranieri, più che i loro figli. Perché anche il più accigliato tra i critici dell’immigrazione non può ignorare quanto sia non solo ingiusta ma anche pericolosa (e incomprensibile per i compagni di scuola) la creazione di un doppio status tra giovani con eguale radicamento, cultura ed educazione. Negare a un giovane, magari nato in Italia e che qui ha studiato con profitto e qui ha i propri amici, il diritto di sentirsi e proclamarsi italiano è una umiliazione cattiva che, magari tra dieci anni, può provocare soltanto risentimento e rancore.
Per questo, tra quelle sul tavolo, la proposta che Forza Italia presentò lo scorso ottobre e che in questi giorni Antonio Tajani ha rilanciato - cittadinanza a chi è nato in Italia o vi è arrivato entro il quinto anno di età, ha 16 anni e ha compiuto con successo la scuola obbligatoria – è oggi un’interessante base di partenza per il confronto parlamentare. Lo si chiami Ius culturae o Ius scholae o Ius Italiae o come si vuole. Quel che conta è la sua ispirazione: il percorso educativo come prerequisito per l’integrazione nella società.
Parliamo di un tema che riguarda le regole generali di convivenza, che in quanto tali dovrebbero essere ampiamente discusse e condivise oltre le logiche di schieramento. Lo “Ius scholae «non è nel programma di governo», ricordano molti esponenti della maggioranza. Vero. Ma proprio per questo – come su queste pagine Danilo Paolini già scriveva il 12 settembre scorso – il Parlamento deve cogliere questa occasione per difendere le proprie prerogative, come luogo in cui posizioni anche diverse si confrontano alla ricerca dell’accordo migliore per il bene comune. Una discussione parlamentare vera, che guardi in faccia i problemi - e non si limiti ad agitare vessilli identitari capaci di cavalcare paure fondate su problemi veri senza però darvi soluzioni – sgombrati i veleni della discussione sul referendum, potrebbe portare all’approvazione di una buona legge, che rispetti la volontà degli elettori, aprendo però una strada verso il futuro.
Quando Luigi Einaudi fu eletto Presidente della Repubblica nel suo discorso al giuramento di fronte al Parlamento, del 12 maggio 1948, si diceva dispiaciuto per dover lasciare quell’Aula e di «non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte, torto e ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi». Se qualcuno meditasse su queste parole…