venerdì 14 agosto 2009
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Se non altro, alcune tragedie alpine di questi giorni hanno avuto l’effetto collaterale di offrirci almeno in parte una via d’uscita alla valanga di luoghi comuni («La montagna assassina»), opinioni allarmate («I soliti escursionisti della domenica»), consigli scontati («Prudenza ed equipaggiamento adeguato») che ogni estate i giornali si fanno premura di offrire ai lettori vacanzieri: forse perché chi sta ai monti avverta un brivido in più e chi soggiorna al mare tiri un respiro di sollievo per lo «scampato pericolo». Infatti i tristi episodi ultimi hanno riguardato due ragazzi in cerca di funghi e non certo su pareti di sesto grado – non si trattava dell’azzardo gratuito dei soliti rocciatori in cerca di exploits, quindi – e alcuni escursionisti non più giovanissimi, stramazzati per malore sui sentieri di tranquille passeggiate in quota. Niente sprovveduti precipitati da un ghiacciaio affrontato in scarpette da ginnastica; niente ottomilisti sorpresi dalla bufera sull’Everest; niente nemmeno frane improvvise (come purtroppo è successo ancora ieri, ai danni di una cordata sul Monte Bianco) o cambiamenti repentini di clima che possano giustificare un presunto accanimento della montagna su chi attenta scarpinando alla sua regale solitudine. Improvvisamente, ci troviamo dunque privi di alibi come viaggiatori sbucati sull’orlo di un precipizio: persino in ferie e nei luoghi più idilliaci quali sono i pascoli alpini o le cime azzurre dei monti – suprema ingiustizia ovvero gran consolazione? – si può morire, e ciò senza che si riesca ad attribuirne la «colpa» né a se stessi, né alla «cattiveria» della natura o di altri elementi esterni, né a Dio... Succede, semplicemente, e al massimo possiamo annoverare il fenomeno nella statistica che stabilisce logicamente la maggior frequenza di un evento allorché aumenti il numero delle persone che vi si espongono. «Da giugno hanno perso la vita in montagna 36 persone, 22 dal 6 luglio», computano precise e impietose le agenzie giornalistiche. Ma proprio questi dati, che vogliono essere allarmanti, se comparati alla quantità di turisti attualmente presenti sulle Alpi dovrebbero servire invece a smentire la facile diceria delle vette «crudeli», forse addirittura accreditando una crescente educazione degli italici escursionisti ad affrontare le ascese con preparazione adeguata. Insomma, le «cime che uccidono» sembrano soltanto il più recente traslato di una retorica che decenni or sono predicava la «lotta dell’alpe» e più tardi esaltava la «conquista delle vette»; come se avessimo bisogno di misurare sempre nel corpo a corpo di una guerra ciò che possiamo conoscere, quanto aspiriamo a raggiungere. Mentre invece si tratta soltanto di bellezza: essa, in ultima istanza, cercavano a modo loro le vittime compiante di questi giorni festivi, e – se accettavano di sottoporsi perciò a un certo rischio, come del resto in ogni altra attività umana – volevano che fosse il più possibile calcolato e prevenuto al meglio. Infatti ciò che inquieta ed attira noi spettatori è proprio la gratuità del gesto il cui esito è stato purtroppo mortale: andare lassù, a che scopo? Ebbene, secondo una storia che circola in famiglia, un congiunto giovane alpinista dilettante fu una volta interpellato dalla madre preoccupata: «Ma non hai paura a salire quelle pareti, che potresti cadere e morire?». Ebbe la prontezza di replicare: «E tu non hai paura quando vai a letto, visto che quasi sicuramente dovrai morire lì?». Avevano ragione l’uno e l’altra, ovvio; forse però non la stessa ragione.
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