giovedì 29 gennaio 2009
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Caro Direttore, la stampa ha dato più volte notizia, con giusto sdegno, dei trattamenti vergognosi che alcune imprese di servizi per «onoranze funebri» riservano alle salme dei defunti e in particolare a quelle dei bambini. In argomento penso che se si vuole dare un piccolo conforto ai lettori si può ricordare loro quanto scrisse l’apologista Minucio Felice nel suo «Octavius»: «Il corpo non muore veramente ma si scioglie negli elementi che Dio custodisce e conserva. I corpi nel sepolcro sono come gli alberi in inverno: occultant virorem ariditate mentita» (cfr. De Ruggero, «La filosofia del cristianesimo», Laterza, pag. 214).

Eugenio Iandolo, Milano

La sua citazione, caro Iandolo, ci richiama alla profondità e alla dignità del mistero della morte alla luce della Pasqua, della speranza cristiana. Ciò da un lato ci rincuora e rasserena, ma dall’altro non fa che aumentare la nostra indignazione per certi avvilenti fatti di cronaca. Ancora in questi giorni è stato scoperto l’ennesimo caso di «racket del caro estinto»: una catena di avidità, abusi, soprusi che cominciava già nelle corsìe d’ospedale, quando il servizio funebre veniva «venduto» a imprese «amiche», in un giro vorticoso di bustarelle e di minacce (per coloro che non stavano al gioco). Si è giunti al punto di «rubare» letteralmente i feretri, durante le esequie, davanti alla chiesa, ad aziende oneste, indisponibili a questo vergognoso mercato. È immaginabile lo sbigottimento dei familiari vittime di queste prepotenze, per i quali l’umiliazione s’aggiunge al dolore. E che dire dei troppi casi d’incuria venuti alla luce in vari cimiteri, documenti di una caduta verticale della pietas, del senso civico, del rispetto umano? Tutto ciò, indubbiamente, ha a che fare con una crisi culturale di vasta portata, e sarebbe riduttivo leggerlo come semplice malcostume, come cronaca spicciola di disonestà e di miseria morale. Tutto ciò appare piuttosto come uno dei tanti esiti del nichilismo divenuto abito mentale e di comportamento; dell’indifferenza e dell’apatìa nei confronti di ciò che è sacro, degno di culto, di memoria, dell’affarismo più cinico e spietato. Una cultura fin troppo immanentistica che nega qualsiasi valore sia dell’esistenza sia della morte. Al contrario, nella visione cristiana, una profonda e indicibile comunione spirituale unisce i viventi a coloro che hanno già compiuto il cammino: una relazione autenticamente affettiva, scaturente dalla promessa del Risorto. Quello cristiano è perciò uno stigma che dà dignità alla persona – viva e anche morta – e che da nobiltà a tutti, anche ai non credenti. Proprio questo «stigma ha sostanziato una civiltà che il nostro Paese non può permettersi di smarrire. Per questo è giusto chiedere, anche a livello giuridico, una maggiore esemplare severità del giudicare questi tristi episodi e nel punire chi ne è responsabile.

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