mercoledì 2 dicembre 2009
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Due milioni di disoccupati sono un grave problema sociale. E sono comunque troppi. Ma il superamento di questa soglia simbolica, comunicata ieri dall’Istat, non deve far perdere le coordinate esatte dell’andamento della crisi, le proporzioni del fenomeno. Perché a cadere preda del catastrofismo – cosa accaduta ieri a buona parte del mondo della comunicazione e della politica – si rischia di non centrare la risposta ai problemi.La rilevazione mensile sulle forze lavoro – approntata per la prima volta dall’istituto di statistica – lascia emergere tra le righe diversi aspetti se non ancora decisamente positivi quantomeno non più negativi. Tanto da far sperare nell’avvio di un’inversione di tendenza. L’emorragia di posti, infatti, si sarebbe fermata. A ottobre complessivamente gli occupati non sono calati rispetto a settembre. E, se si guarda al quadrimestre, si nota una progressione dai 23 milioni e 82mila di luglio ai 23 milioni e 99mila di ottobre 2009. Non a caso la linea della tendenza di media mobile, dopo aver toccato il fondo a luglio, appare ora in risalita. Certo, siamo ancora in territorio fortemente negativo, la crisi c’è stata e permane. Rispetto a un anno fa – quindi a ottobre 2008 – ci sono 284mila persone che prima lavoravano e ora sono a spasso. Un dato inferiore, però, ai meno 362mila di luglio 2009 su luglio 2008. In ogni caso, siamo lontanissimi da quella perdita di 1 milione di posti di lavoro profetizzata dalla Cgil e pure dai 700mila stimati da altri centri studi. Anche guardando a dicembre 2008, alla fine cioè di una fase di crescita dell’occupazione, la perdita di posti di lavoro è forte – 306mila posti – ma non così tragica come preannunciato. Abbiamo lasciato sul terreno un punto di tasso di occupazione: dal 58,7 al 57,7%.E ancora – potrà sembrare paradossale – lo stesso dato sulla disoccupazione non è così negativo come sembra. Siamo saliti a 2 milioni e 4mila (+236mila in un anno) persone in cerca di lavoro, il dato peggiore dal 2004, e in percentuale siamo cresciuti dal 7 all’8% sempre in 12 mesi. E però restiamo ben al di sotto della media europea (9,8%) e lontani da quel 10-12% intorno al quale si oscillava tra la fine degli anni 90 e l’inizio del Duemila. Così pure, il dato sulla disoccupazione giovanile al 26,9% è preoccupante, perché in questo caso siamo sopra il valore mediano a livello continentale (20%), confermando l’esistenza di una "questione giovani" nel nostro Paese. Restiamo però molto distanti dal 33,6% di disoccupazione tra 15 e 24 anni che si registrava nel 1997 e pure dal 29% del 2003. Con buona pace di chi sostiene che la flessibilità ha portato solo disastri.Tutto bene, allora? No, l’analisi corretta del mercato del lavoro non deve far concludere che il problema sia alle spalle. Per l’occupazione non è così: la crisi si è fermata. Non è però finita. Abbiamo superato la prima fase, con danni tutto sommato limitati grazie al potenziamento della cassa integrazione operato dal governo. Ora è iniziata la "fase 2", nella quale si giocherà anzitutto il futuro di quegli oltre 300mila dipendenti che sono da mesi in cassa integrazione e che le aziende potrebbero alla fine espellere nei processi di ristrutturazione. Per costoro – e per tutti quei giovani che hanno perso contratti a termine e collaborazioni – occorre potenziare al massimo da un lato le politiche attive del lavoro e dall’altro progettare una nuova strategia industriale di sviluppo. Ma in questa direzione la confusione con la quale il governo è arrivato all’appuntamento della Finanziaria, non rappresenta certo un buon segnale.
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