Cari colleghi, rinunciamo a un po' dei diritti d'autore
giovedì 13 febbraio 2020

La chiusura di librerie ed edicole impoverisce la nostra civiltà e il nostro pensiero: noi ne usciamo più poveri in tutte le nostre attività, letteratura, filosofia, religione, istruzione, informazione... Una volta da casa mia, dove cominciano i portici del Cinquecento, al centro-città, che dista venti minuti a piedi, incontravo quattro edicole e tre librerie, il che vuol dire che le novità nel campo dei libri e delle notizie mi venivano ripetute sette volte, una volta ogni tre minuti.

Sapevo tutto. Non c’era differenza tra la quantità d’informazioni culturali che bussavano al mio cervello e quelle che s’offrivano al cervello di un francese o un americano. Certo, l’abitante di Tokyo aveva di più, perché da lui i giornali uscivano tre volte al giorno: il lettore usciva di casa alle 7 del mattino, trovava i giornali offerti nella cesta al quadrivio, ne prendeva uno lanciando la moneta equivalente ed entrava nel metrò, tre ore dopo usciva un attimo dall’ufficio e prendeva una copia della seconda edizione, rifatta e aggiornata. Ma la mia ammirazione andava a un gruppo di ragazzi che a Los Angeles vendevano giornali in via de Las Palmas, e riuscivano a offrire i giornali italiani in contemporanea con l’uscita in Italia.

Se li procuravano in teletrasmissione. L’informazione era come l’acqua, penetrava dappertutto. A Varsavia ho visto studenti iscriversi al corso di lingua e letteratura italiana in quantità superiore alla capienza dell’aula. Idem a Budapest. La gente voleva leggere i nostri libri. Adesso siamo noi stessi che li leggiamo poco, e questo vuol dire che siamo in decadenza. Dobbiamo riprenderci. Sui giornali appaiono quasi ogni giorno articoli e lettere di editori, di scrittori e di lettori, su cosa fare perché i libri circolino di più.

La proposta più tenace è fare uno sconto sui prezzi, che non capisco in cosa si diversifichi dall’abbassare il prezzo di copertina. C’è chi propone la detraibilità fiscale per gli acquisti in libreria, e a me pare una buona idea, perché assegnerebbe alla libreria una funzione sociale come quella della farmacia: i libri sono farmaci, guariscono la società dalle malattie, una società che fa largo uso di libri si preserva dalle aggressioni patogene come una società che usa le medicine giuste. I libri sono tutti utili, anche quelli vecchi, di seconda mano. Ci sono Comuni di montagna, come questo dal quale sto scrivendo, che mettono nella piazzetta un armadietto per i libri che in casa non ci stanno più: l’armadietto non è mai vuoto, c’è chi preleva, c’è chi deposita. Ma non è per questo interesse locale che sto scrivendo.

Il libro è un bene che scavalca l’interesse locale e perfino l’interesse nazionale, il libro è un ponte fra le civiltà, e l’aspetto economico del libro paralizza il traffico su quel ponte. E su quel ponte che bisogna intervenire. I libri oggi danno poche soddisfazioni agli autori, agli editori, ai librai perché non superano quel ponte. Gran parte dei libri in libreria son tradotti dall’estero e i migliori dei nostri libri son quelli che vengono tradotti all’estero.

Ma ci sono Paesi poveri, interessatissimi ai nostri libri, che non possono permettersi di tradurli. È un male per la cultura. Per la civiltà. Perché non offrire i nostri libri gratis ai Paesi del Terzo Mondo? Basta mettere un articolo nel contratto dell’autore, che accetta che i suoi libri vengano offerti gratis agli editori dei seguenti Paesi, segue l’elenco. Noi autori raccoglieremmo meno soldi, ma più anime. E capiremmo che il nostro senso è fare i missionari. Conosco l’obiezione: si svaluta il lavoro.

Ma non è vero. All’impiegata comunale che mi chiamava per una conferenza, offriva il rimborso della benzina e mi chiedeva quant’era il mio cachet, risposi che lei sperava di cavarsela con un cachet ma io non volevo soldi, volevo le loro anime. Sentii che esclamava a un’amica: ' El costa poco!'. Signora mia, voglio la sua anima e lei esclama che è poco? Ma lo sa su cosa Goethe ha scritto il ' Faust'?

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