martedì 27 gennaio 2009
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Eravamo rimasti forse un po’ indietro, a un diritto che nasce per tutelare anzitutto il bene dal quale tutti gli altri dipendono – la vita – e che delimita l’esercizio della libertà umana a quel che è in armonia con la conservazione della vita stessa. Forse ci siamo persi qualcosa. Certo che la decisione con la quale il Tar della Lombardia avrebbe potuto aprire la porta delle strutture pubbliche regionali all’esecuzione della sentenza di morte su Eluana lascia senza fiato. A leggerlo per intero, non sembra un provvedimento circoscritto – come dovrebbe – ad annullare un semplice atto amministrativo, ovvero quello col quale il 3 settembre il direttore generale della Sanità in Lombardia vietava a ospedali, cliniche e hospice in regione di accogliere gli ultimi giorni di Eluana per non tradire la loro missione istituzionale. No: il Tar sale in cattedra, come già la Cassazione nell’ottobre 2007 e la Corte d’Appello di Milano nel luglio 2008. E riscrive i fondamenti del diritto, piega le norme, la loro ratio e persino il buonsenso alla dimostrazione di un solo, martellante teorema: l’individuo ha su se stesso potere assoluto di vita e di morte. La chiamano autodeterminazione, ma non è un principio che si può affrancare da ogni limite. A meno che non si voglia far credere che la Costituzione all’articolo 32 abbia introdotto non la tutela della salute ma il diritto di morire, e persino di suicidarsi. A forza di sentenze come quella di ieri forse proveranno a dimostrarci anche questo. Certo è che per spegnere la fragile fiammella di una vita – come quella di Eluana – che si affida da 17 anni a mani altrui semplicemente per alimentarsi, le stanno davvero provando tutte, con una determinazione che meriterebbe miglior sorte. A ogni sentenza si aggiunge un codicillo all’inaudito: ora si dice che se si intende per eutanasia «soltanto il comportamento etiologicamente inteso ad abbreviare la vita e che causa esso positivamente la morte» non si allude alla giovane lecchese, no: per lei vale «la scelta insindacabile del malato». E dire che, se le parole conservano ancora il loro senso letterale (ma forse anche su questo ci siamo distratti), a una persona cui viene tolto il nutrimento la vita si abbrevia e la morte viene positivamente causata. O no? Il Tar completa il suo capolavoro semantico e, disponendo le regole per il ricovero in ospedali che dovrebbero evitare la morte e non causarla, parla di una paziente che va aiutata a «lasciar scorrere le sue energie vitali seguendo il flusso degli accadimenti naturali». Adesso l’eutanasia, in tribunale, si chiama così.
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