sabato 16 giugno 2012
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​Per sostenere mamme decise ad abortire in un processo di riflessione, condivisione ed eventualmente di ripensamento ora scende in campo anche il "volontariato digitale". Un’esperienza che colpisce, raccontata ieri da Avvenire e che al di là del risultato offre un esempio di vicinanza in un momento drammatico, in cui tanta parte della decisione è proprio legata al senso di solitudine e alla paura di non farcela, da sole, ad assumere la responsabilità del figlio.L’iniziativa e i suoi esiti (tante vite "salvate" dal Web) mi ha doppiamente toccata, come studiosa e come mamma. Come studiosa perché indica uno dei tanti sentieri nascosti che bisogna avere la fantasia di intravedere per poter rendere sempre più "abitabile" il Web. O, meglio, per integrare lo spazio digitale in quello concreto delle nostre vite, contribuendo a rendere più umani l’uno e l’altro. Si moltiplicano gli interventi degli "scettici digitali", critici sulle possibilità della rete di mantenere le sue promesse di socialità. «Non mi fido di Twitter e Joyce – diceva in una recente intervista lo scrittore Jonathan Franzen – perché simulano sentimenti. I social network mobilitano solo chi è già d’accordo su qualcosa», mentre i nostri dispositivi mobili «accentuano o simbolizzato un rapporto puramente edonista ed egoista». Un pessimismo non certo ingiustificato, ma smentito, in questo caso, da ciò che può succedere quando non ci si lascia guidare dalle tecnologie e piuttosto le si trasforma in un ambiente abitabile. La riduzione della distanza, la possibilità di raggiungere i lontani, di captare "messaggi in bottiglia" che possono forse celare una richiesta di aiuto è una delle straordinarie possibilità che il "villaggio digitale" ci offre, e che la storia dei volontari online esemplifica in maniera semplice quanto convincente. La rete può essere un luogo in cui ascoltare, confidarsi, sostenere, prendersi cura. E può esserlo per chiunque, anche per chi non può muoversi da casa ma ha tanta capacità di prestare attenzione e parole piene di vita da pronunciare. Lo scriveva McLuhan, quasi mezzo secolo fa, che l’era elettrica (oggi la chiamiamo digitale) avrebbe consentito a chiunque – anche a chi prima era emarginato – di trovare una sua collocazione e una forma di valorizzazione. Cerchiamo di cogliere questa opportunità.E poi sono stata toccata come mamma. So quanto è faticoso generare e prendersi cura, e non mi sento di giudicare chi si lascia schiacciare dalla paura. Ma credo che ogni storia sia singolare, e proprio nel rapporto singolare e interattivo che si può costruire in rete ci sia la possibilità di raccontare a chi non se la sente di diventare mamma una storia un po’ diversa. Per accrescere, non per limitare la sua libertà di scelta. La storia che tutte sentiamo è che il figlio ci vincola, ci limita, deve essere una nostra scelta, e se non lo è abbiamo il diritto di sbarazzarcene, come facciamo con i regali sgraditi. La storia che si può raccontare, anche attraverso la rete, è che spesso ciò che non abbiamo scelto è ciò che più ci può definire (pensiamo ai nostri genitori, o a quanto ci capita di inaspettato, nel bene e nel male, che però lascia in noi tracce incancellabili). Forse prendersi il tempo di pensare, di ascoltare l’essere che, benché non invitato, cresce dentro di noi, e quello che ci può dire con la sua presenza silenziosa e tenace è un’opportunità e non solo un problema. Ascoltare il rapporto che si costruisce e darsi il tempo di capire se l’idea astratta che aveva determinato una scelta drastica e autoriferita non possa essere messa in discussione. Come atto di libertà. Alla fine si può anche decidere che non ce la si fa. Si può lasciare il bambino in ospedale perché venga affidato a chi desidera essere genitore senza poterlo fare biologicamente. La legge lo permette. Ma si può anche cambiare idea. Il contatto che si crea in rete può avere questo duplice effetto positivo: rompere il senso di solitudine, creando le condizioni per l’ascolto e la condivisione; liberare la decisione dalla contingenza dell’istante (in cui, più che liberi, si è in preda alla paura) e darsi il tempo di vedere le cose in un altro modo, di ascoltare anche l’altro e di includere il rapporto, che va letteralmente prendendo corpo, tra gli elementi che guidano la scelta. Questo, lo ripeto, è aumentare le chances di libertà, non diminuirle. La libertà è anche capacità di cambiare idea, se si trovano buone ragioni per farlo.
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