sabato 6 agosto 2016
L'abbaglio dei fuochi fatui
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«Le eresie che dobbiamo temere sono quelle che possono confondersi con l’ortodossia»Jorge Luis Borges. L'AlephIl profeta non è solo un liberatore di uomini, di donne, di schiavi, di poveri. È anche, e forse soprattutto, un liberatore di Dio. Le religioni e le ideologie hanno per loro natura la tendenza a imprigionare Dio nelle loro gabbie, a costruire tende e templi dove costringerlo a entrare e poi rinchiudercelo. Elaborano teologie e filosofie dove Dio non può fare altro che obbedire alle leggi che abbiamo preparato per Lui, senza sorprendere nessuno. Se non ci fosse la profezia, queste gabbie sarebbero perfette. Il primo dono dei profeti è vedere Queste prigioni di Dio, e poi chiedere e gridare la liberazione del Prigioniero. Le liberazioni profetiche non si compiono però nel tempo storico del profeta, perché il suo oggi può essere soltanto il tempo della lotta, che però crea la possibilità di una storia diversa domani. Il profeta è come un vecchio che getta nel terreno un seme di quercia: sa che l’albero non sarà per lui. Con il capitolo 9 si conclude il cosiddetto "memoriale di Isaia" (6,1-9,6), cioè il grande racconto, probabilmente autobiografico, della prima missione storica del profeta e della sua fine fallimentare. Isaia fu chiamato a diventare profeta e a parlare ad Ahaz, re di Giuda. Il re non l’ascoltò, non credette ai segni, il cuore del suo popolo si indurì sempre più.
Questa prima fase della sua vita di profeta, che durò forse due anni, lo segnò profondamente. I suoi figli divennero le coordinate della sua profezia. Il primo, il figlio della speranza: «un-resto-tornerà» (Isaia 7,3). Il secondo, l’annuncio della sventura: «YHWH mi disse: chiamalo "pronto-saccheggio/rapido-bottino"» (8,4). Nomi simbolici, certo, all’interno di episodi dove la storia e i fatti sono incerti, sfumati, sfocati. Ma non fino al punto di perdere la concretezza e la carnalità di quella storia profetica. Non capiamo né Isaia né l’umanesimo biblico se rinunciamo a vedere uomini in carne e ossa dentro i loro racconti. Perdiamo troppo, quasi tutto, dei primi capitoli del rotolo di Isaia se lo facciamo diventare una raccolta di discorsi morali e visionari, qualcosa di totalmente sganciato dalla vicenda umana e storica del suo autore. I suoi figli sono messaggi e segni, ma prima di tutto sono bambini, che portarono incisi per sempre nel loro nome la profezia di loro padre - nella Bibbia il nome è una cosa molto seria. Tutte le vocazioni segnano la nostra carne personale e collettiva - non c’è niente di più carnale della sequela di una vocazione. I profeti possono in-segnare parole-carne perché prima sono stati segnati dalla parola nella loro carne più profonda.
 
Ogni chiamata è personale, ma i suoi effetti sono più grandi della persona. Tocca amici, mogli, mariti, figli, colleghi di lavoro, fidanzate non diventate mogli, tutti "feriti" e "benedetti" da quella chiamata. È anche questo il motivo delle genealogie che aprono le storie dei profeti: «Isaia, figlio di Amos», «Geremia, figlio di Chelkia». La benedizione di una vocazione profetica non procede solo in avanti, verso figli e posteri. Misteriosamente ha anche un valore retroattivo, procede all’indietro, dando senso e benedicendo il passato. Molte vocazioni di figli hanno cambiato redimendola la storia di padri, madri e nonni, sono stati l’ordito che ha svelato i disegni di una trama fino ad allora incomprensibili. La nascita di Gesù di Nazareth ha dato un altro senso alle dolorose storie di Tamar e Betsabea. La nascita di ogni figlio dà un senso diverso alla storia dei genitori, al loro incontro, agli incontri mancati, alle loro gioie e sofferenze. Quel bambino concreto ci spiega il dolore di un primo fidanzamento fallito, degli abbandoni fatti e subiti: i nostri, e quelli dei nostri avi. Ecco perché ogni figlio è un messaggio scritto in molte lingue, le più semplici ancora vive, altre morte, alcune non ancora decifrate. I profeti, con i loro segni diversi, sono anche "stele di Rosetta" viventi, che ci consentono di decifrare lingue sconosciute, per poter finalmente comprendere storie, poesie, iscrizioni funerarie. Diversamente dal profeta, però, i suoi famigliari e amici non hanno un incontro personale con la voce. Non sempre, quasi mai, arriva l’angelo in sogno a dire: «Giuseppe, non temere» (Matteo 1,20); ma spesso, quasi sempre, i compagni devono camminare insieme ai profeti, seguirli nelle loro missioni, nei loro dolori, a volte martiri, e senza averlo scelto. Seguono una voce che non odono direttamente, ma che misteriosamente li chiama e li associa alla vocazione di qualcuno al quale sono legati da altre vocazioni o destini. La loro è spesso una storia di mansuetudine e di mitezza, che fa loro "ereditare" la stessa terra del profeta. Queste "vocazioni senza voci" sono autentiche vocazioni, veri messaggi: «Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato siamo segni e presagi» (8,18). Segno il profeta, segni i suoi figli, segno "la profetessa" (8,3).
Isaia chiude la sua prima missione con una solenne consegna ai suoi discepoli: «Chiuderò la testimonianza, sigillerò l’insegnamento alla presenza dei miei discepoli» (8,16). Dall’archeologia antica e da altri testi biblici sappiamo che questi atti erano momenti ufficiali, giuridici, che avvenivano in presenza di testimoni, che qualche volta apponevano la loro firma. Un documento particolarmente importante, un contratto o un testamento, veniva legato in cima con un filo, gli si apponeva un sigillo per garantirne l’autenticità, lo si deponeva in un vaso di terracotta, e quindi affidato a chi doveva custodirlo. Isaia ha svolto la sua missione. Non gli resta altro che affidare la sua testimonianza (torah) e il suo insegnamento ai suoi discepoli, con lo stesso atteggiamento spirituale con cui si lascia un testamento. Per dire che quella parola non ascoltata è viva e rappresenta un’eredità. La testimonianza-insegnamento è consegnata ai suoi discepoli. È la prima volta che incontriamo la comunità dei discepoli di Isaia. E compare per raccogliere l’eredità della sua parola e del suo fallimento. Un primo compito di ogni comunità profetica-carismatica che raccoglie un’eredità non è la gestione o l’amministrazione dei successi del profeta/fondatore, ma la custodia di un attestato di fallimento.
Tra le tante eredità di un profeta, la prima che va legata e sigillata è la memoria del suo fallimento storico. Quando invece si "legano" i successi e si dimentica il fallimento, le comunità si smarriscono. Ci sono altre parole che Isaia prima di ritirarsi dalla vita pubblica (forse per venti anni) rivolge ai suoi discepoli: «Quando vi diranno: "Interrogate i negromanti e gli indovini che bisbigliano e mormorano formule" . Voi attenetevi all’insegnamento, alla testimonianza» (8,19-20). Durante le crisi sociali, morali e politiche cresce molto l’offerta di indovini e di maghi, spesso indotta dalla domanda. I profeti non vengono ascoltati o vengono uccisi. E così naturalmente cresce il mercato della magia e degli aruspici, insieme alle spiritualità spettacolari degli effetti speciali, dei "segni", delle visioni, dei miracoli. Isaia profetizza l’arrivo imminente di grandi prove e sofferenze per il suo popolo, e sente il bisogno di mettere in guardia da questo pericolosa malattia dei tempi delle crisi. Molto significativo, però, è che il profeta indirizzi questo suo avvertimento ai suoi discepoli, alla sua comunità profetica. Durante le crisi, infatti, non abbondano soltanto i falsi profeti e i maghi: anche gli autentici profeti corrono il forte rischio di trasformarsi in indovini.
La profezia è sempre fedeltà costosa al  una parola non propria, che assicura solo insuccesso e persecuzioni. Nelle età di passaggio e di smarrimento collettivo, durante le carestie e le prove, i popoli e i loro capi cercano e chiedono salvezza. Le risposte dei profeti non piacciono, perché non indicano le strade larghe e veloci che il popolo e i suoi capi vorrebbero, consolazioni illusorie che i profeti, per vocazione, non possono dare. Le consolazioni dei profeti sono vere perché non rispondono ai "gusti dei consumatori": i "clienti" dei profeti non hanno sempre ragione. Nella difficoltà di restare fedeli al messaggio, arriva puntuale la grande tentazione di ammorbidire il messaggio («questo parlare è duro»: Gv 6,60), per entrare in consonanza cognitiva con i propri ascoltatori. E la profezia muore, trasformandosi poco alla volta in produzione di illusioni e pseudo-consolazioni, in «bisbigli di formule». Non custodiscono più la «testimonianza e l’insegnamento» e diventano venditori di beni di consumo emotivo, organizzatori di spettacoli di intrattenimento di grande successo. Ma è Isaia stesso a dirci il destino di chi cade in queste trappole: «Non ci sarà mai aurora per loro» (8,20). Chi è nella notte può vedere l’alba. Se, invece, scambiamo la notte con il giorno, finiamo per confondere l’aurora con il tramonto.
Le religioni degli indovini combattono il buio vero della notte con fuochi di artificio, e anche se arrivasse l’alba non sarebbero in grado di riconoscerla, abbagliati dai propri fuochi fatui. Quando i profeti si ritirano e la crisi è forte, la sola cosa saggia che possiamo fare è imparare a resistere nel buio, apprendere il suo nuovo linguaggio, diventare compagni solidali degli altri abitanti della notte del mondo – e sono molti. Le comunità eredi dei profeti sono fedeli all’insegnamento e alla testimonianza se diventano sentinelle del termine della notte. Se attendono, amano, desiderano l’alba, ne vedono i primi bagliori, e annunciano a tutti la bella novella: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce. Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. … Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (9,1-5). l.bruni@lumsa.it
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