mercoledì 11 dicembre 2013
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Sette voti. Il risicato margine (334 a 327) col quale ieri il Parlamento eu­ropeo ha definitivamente cestinato la contestatissima 'Risoluzione E­strela' è il frutto di una duplice, op­posta tenacia. Da una parte la determinazio­ne di chi – in testa la deputata socialista por­toghese che ha dato il nome al progetto di leg­ge europea sulla 'Salute e i diritti sessuali e ri­produttivi' – ha proposto ben due volte un te­sto assai discutibile e divisivo sul piano etico, con la sua insistenza sull’aborto come diritto, l’obiezione come ostacolo e l’educazione ses­suale di Stato obbligatoria come fattore chia­ve di emancipazione. Dall’altra la resistenza attiva di un drappello di eurodeputati che sin dalle prime battaglie in 'Commissione diritti della donna e uguaglianza di genere', nello scorso settembre, sono riusciti, voto dopo vo­to, ad allargare la schiera dei contrari a una ri­soluzione dalle pretese esplicitamente ideo­logiche. 
Come si può definire altrimenti un te­sto che, in ben 33 pagine e 91 articoli, si imbarca nell’incomprensibile impresa di definire mi­nuziosamente tutto ciò che concerne la gene­razione umana, la fertilità, la differenza ses­suale, la contraccezione, l’interruzione di gra­vidanza, la fecondazione in vitro, l’organizza­zione dei servizi abortivi, la pianificazione fa­miliare, l’educazione sessuale e il ruolo della famiglia in materia?
Al termine di un’autentica battaglia in aula, sull’ostinazione dei sostenitori di questa os­sessione normativa attorno a ciò che tocca più da vicino la definizione stessa della nostra u­manità ha prevalso un’idea semplice quanto i tre paragrafi (in una smilza cartella di testo) della proposta alternativa lanciata dal Partito popolare, e alla fine vincente sul testo a firma socialista-liberale: quella secondo la quale «la formulazione e l’applicazione delle politiche in materia di salute sessuale e riproduttiva e re­lativi diritti nonché in materia di educazione sessuale nelle scuole è di competenza degli Stati membri».
Sul filo di lana l’Europa ha de­ciso di restare fedele a se stessa, di rinunciare alla pretesa di riscrivere la natura umana – ri­soluzione dopo direttiva, dopo programma quadro – e di richiamare in servizio lo spirito dal quale è nato il suo sogno di unità tra i di­versi. Ricordando anzitutto a se stessa che ri­spetto all’ansia dirigista in territori decisivi come la vita, l’educazione e il ruolo della fa­miglia deve avere la meglio quel che prescri­ve la legge e la cultura di ciascuno Stato mem­bro, non ha fatto altro che ripassare il princi­pio di sussidiarietà che ai padri fondatori era talmente chiaro da costruirci sopra l’intero edificio comunitario.
Un Parlamento europeo che avesse negato questa verità costitutiva avrebbe legittimato l’azione centrifuga delle troppe forze che la­vorano a lacerare l’Unione nel nome di infini­te pretese di fazione, di lobby o di bandiera. La voce troppo spesso fioca dell’Europa quando si tratta di pesare le ragioni e l’autorevolezza sulla scena globale si spiega anche con questo inavvertito logoramento culturale, al quale è stato posto un primo argine. Ecco perché il vo­to di ieri, per quanto risolto al fotofinish, se­gna un passaggio di straordinario rilievo: una risposta inattesa a chi si stava convincendo di poter avvolgere nella bandiera blu a stelle o­gni genere di individualismo senza incontra­re praticamente resistenza; e insieme l’inco­raggiamento a quanti pensano che non vale la pena battersi per le idee in cui si crede, cre­dendosi sconfitti in partenza. Invece la vita sa ancora vincere, se ci crediamo.
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