giovedì 28 marzo 2013
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La discussione sulle cure compassionevoli suscitata dal caso della piccola Sofia e del metodo Stamina si è rapidamente radicalizzata. Da un lato l’hybris di una certa magistratura e di qualche improvvisato censore mediatico che ormai pretende di giudicare i risultati della scienza – dalla previsione dei terremoti alle cure mediche – non secondo il metodo scientifico ma piuttosto seguendo il sentimento e il consenso popolare, dall’altro gli scienziati che cercano disperatamente di riportare un po’ d’ordine, di far discernere le conoscenze scientifiche verificabili dalle supposizioni personali.
Di fronte alla preoccupazione di un genitore e alla vita della sua bambina non si può ragionare a cuor leggero e decidere in base a sentenze di tribunali ed esternazioni mediatiche. In questo senso, qualche giorno fa bene ha fatto Giuseppe Remuzzi dal Corriere della Sera a inquadrare 'scientificamente' il problema, sottolineando come «cure compassionevoli» i cui effetti non siano accuratamente studiati non solo sono inutili ma potrebbero essere dannose o addirittura letali. Però l’asettica ancorché onesta sentenza della medicina – per questa malattia non ci sono cure – non è quella che una mamma vuole sentire né si può rassegnare ad accettare. Non esiste veramente una risposta alternativa? Una risposta che eviti a un genitore di rincorrere l’illusione di rimedi magici, ma al tempo stesso lo difenda dalla disperazione nella quale potrebbe precipitare di fronte all’impotenza della scienza? Forse dovremmo cominciare col rivedere il nostro concetto di compassione, che troppo spesso nasconde la commiserazione. «Oh, mi dispiace...», è la reazione tipica di chi viene a conoscenza della malattia rara, spesso genetica, di un bambino, e da quel momento, agli occhi di chi parla, i suoi genitori si trasformano in persone sfortunate, ingiustamente colpite da una grande disgrazia («Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?», chiedevano i discepoli a Gesù, preoccupati solo di individuare la causa di quella diversità)...
E se per una volta la nostra risposta, invece di quel pilatesco 'mi dispiace', fosse: «Fortunati voi e benedetti, perché l’Amore incondizionato è entrato impetuoso nella vostra casa!»? Il fatto che un bambino ammalato grave o disabile sia spogliato di tutte le caratteristiche che la 'società dei costruttori' (quella, per intenderci, che scarta le 'pietre bislacche') considera importanti – la bellezza, l’intelligenza, la prestanza fisica, il futuro e la possibilità di successo... – mette a nudo, distilla, l’unica cosa che veramente conta: l’amore. Allora, i cosiddetti sacrifici che l’assistenza richiede, diventano lievi, diventano semplicemente uno stile di vita 'diverso', adatto a una situazione 'diversa'. Ma se guardiamo bene, le 'rinunce' sono relative a cose effimere e di nessun valore salvifico. Al contrario, la mutua dipendenza assoluta e il rapporto di puro amore che si crea miracolosamente in famiglia oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo e quindi vince anche la morte.
Certo, il processo che porta a riconoscere nella disabilità e nella malattia grave un valore non è facile né indolore, soprattutto perché la situazione si presenta inattesa e ci trova impreparati; e impreparate sono spesso le strutture medico-scientifiche che dovrebbero offrire aiuto. In particolare, come in questo caso, esse inducono alla rassegnazione – anticamera della disperazione – più che alla valorizzazione di chi rappresenta, nel modo più profondo ed essenziale, l’essere 'creatura'. La vera 'cura compassionevole', che può guarire, dovrebbe essere quella di cambiare mentalità, guardare alla disabilità con occhi diversi e confortare con gioia le persone che inaspettatamente si trovano ad affrontare una situazione che sembra loro insopportabile, cercando di trasformarli da 'disgraziati' in 'benedetti', dimostrando che la loro amorevole battaglia quotidiana, qualunque sia il suo esito, è la più convincente teodicea . La più alta ed efficace spiegazione e risposta davanti al male che ci insidia.
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