mercoledì 2 ottobre 2013
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In democrazia la politica è fatta soprattutto di mediazione e compromessi: non necessariamente al ribasso, ma sempre nella consapevolezza che qualunque interesse di parte, per quanto nobile e irrinunciabile lo ritengano i suoi sostenitori, deve piegarsi di fronte all’interesse nazionale. Ogniqualvolta questa elementare norma di buon senso politico viene dimenticata ci si avvicina maggiormente al momento in cui i fatti si assumono il compito di ricondurre i massimalisti alla realtà e di spingere gli elettori a punirli nel segreto dell’urna. Intendiamoci: non stiamo sostenendo che chi vince le elezioni non abbia diritto a realizzare il proprio programma. Ma se è vero che persino in questo caso occorre osservare attenzione e rispetto per la voce di chi è temporaneamente in minoranza, a maggior ragione mostrare uno spirito di moderazione dovrebbe essere una scelta obbligata quando a contrapporsi sono due minoranze...Le notizie che in queste settimane sono arrivate dalla Germania, dall’Italia e dagli Stati Uniti ci raccontano in fondo tutte la stessa storia: quella dello scontro tra gli interessi partigiani e quelli della collettività e dello sforzo talora frustrato di trovare la via di un difficile accordo quando la sola alternativa è quella di danneggiare il Paese che si dovrebbe servire. Certo, i sistemi istituzionali sono molto diversi, eppure in ognuno di questi è riposto un meccanismo che rende la ricerca del compromesso una necessità costante, che riposi sul checks and balance system (i pesi e contrappesi del sistema istituzionale) americano, sul peculiare bicameralismo tedesco o sulla perenne transizione italiana.Ma le opportunità, e persino la necessità, non sono determinanti. Affinché i sistemi possano funzionare è comunque necessario che le classi dirigenti assumano le decisioni necessarie, facendosi carico non di un generico senso di responsabilità, ma della propria quota di responsabilità, trovando la rotta che consenta loro di servire l’interesse generale riuscendo al tempo stesso a non suicidarsi politicamente. Già, il timore del suicidio è quello che spesso blocca i tentativi di convergere verso posizioni di mediazione. O che rende i tempi di realizzazione del compromesso o della "grande coalizione" più lunghi. È quanto sta accadendo in Germania, dove i socialdemocratici dovranno rassegnarsi a collaborare con la signora Merkel, ma allo stesso tempo devono evitare che questa collaborazione finisca con il ritorcersi contro di loro alle prossime elezioni, magari favorendo la Linke. L’ultima volta, la grande coalizione venne realizzata dopo 62 giorni di trattative, volte a stilare un programma impegnativo per tutti.D’altra parte, anche l’ostinarsi al muro contro muro può portare al suicidio politico. È il rischio che sta correndo il centrodestra in Italia, il cui elettorato non pare apprezzare le scelte "sansoniane" della parte più incendiaria (e pasionaria) della sua leadership... Una scelta che pare inaccettabile a un numero sempre maggiore dei suoi quadri.È anche quanto potrebbe accadere al Partito repubblicano in America, in cui il furore ideologico di un liberalismo economico macchiettistico e fuori tempo massimo sta tenendo sotto scacco tutto il Grand Old Party, oltre che il Congresso e l’intero Paese. Oltreoceano la crisi costituzionale assume comunque i contorni drammatici della "serrata della pubblica amministrazione", e non suscita nessun riso amaro.A chi in questi giorni "tristi e scellerati" per la nostra nazione scaglia invettive contro le leggi elettorali o le abborracciate riforme che starebbero alla base di un simile decadente spettacolo, vorremmo solo ricordare che, in definitiva, come sempre, tutto è solo questione di scelte e di volontà, ovvero tutto è riconducibile alla qualità del ceto politico. E forse questo è ciò che, come cittadini della Repubblica, ci lascia più l’amaro in bocca. Possiamo solo sperare che l’amore per la patria comune prevalga su qualunque sentimento di lealtà particolare, qualunque cosa esso rappresenti o abbia rappresentato.
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