martedì 19 novembre 2013
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​Abbiamo scritto più volte, e già ai tempi del governo di Mario Monti, che è necessario che l’Italia batta i pugni sul tavolo europeo. Ora il nuovo premier Enrico Letta ha fatto presente, anche con immagini pittoresche riportate da alcuni giornali stranieri, che difenderà con forza le nostre ragioni in Europa. E persino Romano Prodi, uno dei padri dell’euro e della grande Unione, quasi riecheggiando una sua antica polemica con le "regole stupide" contenute nel Patto di stabilità figlio dell’accordo di Maastricht, ha avvertito che è forse arrivato il tempo di litigare con i nostri partner.L’incubo dei prossimi anni è senz’altro il Fiscal Compact e l’aggiustamento che esso rende necessario. Fiscal Compact che appare come una montagna insormontabile. Ridurre di 1/20 all’anno la parte di debito eccedente il 60%, per l’Italia che ha un fardello complessivo che è arrivato al 133% del Pil ed è in valore assoluto sopra i 2mila miliardi vuol dire, infatti, grosso modo, ridurlo di circa 58 miliardi all’anno (anche se, in caso di successo, la progressiva riduzione dello stock di debito dovrebbe lentamente ridurre l’onere nel tempo).

L’impresa appare veramente titanica anche se ci armassimo di buona volontà e volessimo trascurare il fatto che nostri concorrenti come Stati Uniti e Giappone non si pongono minimamente il problema. Problema che non si risolve, comunque, con soluzioni una tantum, liberandoci di ricchezza pubblica come le nostre partecipazioni in Enel e Eni, o addirittura delle spiagge, perché questo risolverebbe il problema per un solo anno e non per quelli successivi. Guardando a iniziative che potrebbero avere effetti permanenti, raschiando il fondo del barile con i tagli di spesa attesi dalla revisione della spesa delle amministrazioni pubbliche appare realisticamente difficile superare i 10-15 miliardi e quasi impossibile "produrne" circa quattro volte tanti.

In realtà, lo stesso Fiscal Compact prevede importanti margini di trattativa. Il risultato della riduzione di 1/20 deve essere raggiunto come media triennale e sono possibili deroghe se il governo dimostra che lo scostamento dall’obiettivo dello 0.5% del rapporto deficit/PIl (l’altra parte derivante dagli obblighi del Fiscal Compact) dipende da fattori non strutturali (come ad esempio l’attuale fase di recessione e i sostanziosi contributi di solidarietà che il nostro Paese ha versato per contribuire alle crisi all’interno dell’area Ue). Se in passato – come ha evidenziato Giuseppe Pisauro in un articolo su LaVoce.info – in periodi non di recessione è stato possibile con il pareggio strutturale di bilancio arrivare a una crescita nominale del Pil (ovvero crescita reale più inflazione) del 2.5% che garantisce la traiettoria di riduzione di 1/20 all’anno con un rapporto debito/PIL al 120% (noi, però, siamo già ben oltre), nella situazione attuale di preannunciata uscita dalla recessione siamo ben al di sotto di quel 2.5% e la situazione è aggravata dal fatto che tre fattori peggiorativi (le politiche di austerità fiscale della Ue, il mancato uso del surplus tedesco per attenuarle e i vincoli della Bce che non può operare con acquisti diretti di titoli come la Fed statunitense) hanno portato l’inflazione assai più giù di quel 2% che sarebbe il target della Bce stessa (in media allo 0.8% nella Ue e più bassa da noi). Queste tre aggravanti non dipendono dal nostro Paese, ma dai limiti delle politiche monetarie e fiscali comunitarie che hanno di fatto aggravato in modo sostanziale la situazione e vanno fatti valere come quei fattori rilevanti non dipendenti dalle nostre decisioni che fanno scattare la deroga.Continuiamo a ritenere tutta l’impalcatura del Fiscal Compact una camicia di forza eccessiva, prodotta dall’autismo autolesionista di creditori miopi, che rischiano di ottenere solo risultati controproducenti. A prescindere da questa considerazione generale, gli argomenti riportati potrebbero e dovrebbero essere il terreno di partenza fondamentale per chi – come il governo Letta – cerca faticosamente il dialogo e un compromesso e deve dimostrare sul campo di avere la forza e la determinazione di cui ha proclamato di disporre.

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