Ascoltiamo chi è in crisi (la via si prende dalla fine)
venerdì 18 dicembre 2020

È il simbolo del tempo che stiamo attraversando, la crisi economica l’ha schiacciato e non ha retto la catastrofe: uomo di una volta, che deve farsi da solo e cavarsela da solo, s’è suicidato come si faceva una volta, buttandosi sotto un treno. Ha sbagliato, perché quando uno è chiuso in un angolo e cerca una scappatoia, il suicidio non deve mai essere un’opzione. Si cerca ogni strada, tranne quella del suicidio. Il suicidio aggrava il fallimento, e lo scarica sui famigliari che restano, in questo caso il padre. Però se uno si trova chiuso nell’angolo, lo Stato, la società, noi, dovremmo offrirgli una possibilità di salvezza, un aiuto, un soccorso. Magari faticoso da raggiungere, difficile da mettere in pratica, ma dovrebbe esserci. Guardavo nei giorni scorsi la fila di persone che riempivano la strada davanti alle due sedi dell’onlus Pane Quotidiano a Milano e pensavo a tutte le altre file che questo giornale ha raccontato e pochi hanno osato vedere.

E ascoltavo le risposte che poveri e impoveriti davano alle interviste: c’era una madre anziana, dalla pensione misera, che viveva con un figlio sui quarant’anni, quindi all’apice della forza, ma senza lavoro, e lei aspettava il suo turno per ritirare il pacco e quel che c’era dentro, pane, latte, yogurt, formaggio. Perché dovrebbe vergognarsi? Perché lei e non noi? Ho visto che adesso questi posti che dan da mangiare a chi ha fame espongono un cartello che dice: «Sorella, fratello, qui nessuno ti chiede chi sei e perché sei qui, ma tu hai fame e mangiare è un tuo diritto, noi siamo qui per far valere il tuo diritto ».

È detto bene. Significa che quel che facciamo non è un di più ma un dovere. Ho visto una volta uno di questi posti caritatevoli che offrivano cibo a chi veniva a prenderselo, non c’era nessun controllo su chi veniva, poteva venire anche qualcuno che non ne aveva strettamente bisogno, quindi qualcuno che rubava, ma sopra lo sportello da cui si ritirava il pane c’era un cartello che diceva: «Chi ruba ai poveri ruba a Dio». Era sufficiente. Questo avvertimento si rivolgeva all’intruso che s’intrufola tra i bisognosi senza aver bisogno. Voleva bloccarlo scatenandogli il senso di colpa. Il cartello che mettono adesso («Sorella, fratello… ») si rivolge al vero bisognoso, per levargli ogni senso di colpa.

È un tempo di crisi. La crisi è sempre totale. Parte come crisi economica, ma subito dopo diventa crisi sociale e perfino culturale. Abbiamo in testa una cultura che non ci aiuta ad affrontare e superare la crisi. La caduta dentro la crisi diventa per noi una caduta nella pazzia. Non sappiamo muoverci, non sappiamo inventare un’uscita, ci sentiamo schiacciati e ci lasciamo schiacciare. Questo mio concittadino che s’è buttato sotto il treno della linea Padova-Bologna (quindi Venezia-Roma) lo immagino come un perfetto nordestino, uno di quelli che poco tempo fa creavano il miracolo: abituato a far tutto da solo, aveva messo su un bar, una volta sarebbe diventato ricchetto ma adesso col Covid e con la chiusura alle 18 si riempiva di debiti, e per uscire dai debiti è uscito dalla vita. C’era nebbia, il macchinista non poteva vederlo, lui stava nascosto in una curva ed è saltato fuori di colpo. Ci dovrebb’essere un rifugio per chi è colpito dalla crisi. Uno sportello che dà aiuto.

Una volta c’era. Quando i fallimenti eran più diffusi, e i suicidi si succedevano a catena. C’erano cabine d’ascolto giorno e notte, e aiuti psicologici che cercavano la strada per diventare aiuti economici. I drammi che abbiamo attraversato allora non potremo dimenticarli mai. Non bisogna che quel tempo ritorni. Non dobbiamo riprendere quella strada partendo dall’inizio, ma dalla fine: dall’ascolto, giorno e notte.

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