giovedì 9 luglio 2009
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Pechino, agosto 2008, cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici: le coreografie esaltano l’invenzione della carta, l’arte della scrittura, la potenza della polvere da sparo, il coraggio dei navigatori, l’audacia degli scienziati. Pechino, luglio 2009, crisi dello Xijang: Hu Jintao rientra precipitosamente in patria dopo aver abbandonato l’Italia e il G8, mentre le cronache dalla regione uigura parlano di 400 morti e di 1.500 persone disperse o scomparse nelle galere. A distanza di un anno la Cina espone nel modo più clamoroso, e sotto gli occhi del mondo, ciò che ha saputo insegnare e ciò che deve ancora imparare. Con il dilemma del grande Paese dai piccoli diritti (umani, civili, politici) siamo alle prese non da oggi ma dagli anni Novanta, da quando le riforme economiche interne spianarono alla Cina la strada verso l’esterno, verso il recupero di un ruolo da protagonista nella comunità internazionale. Il cammino è stato enorme: gli emissari di Pechino condizionano i mercati, gli equilibrii politici globali (si pensi all’influenza cinese sulla Corea del Nord, l’Iran, il Sudan), il debito estero degli Usa, persino gli assetti di un intero continente come l’Africa. Si è prodotto anche il processo inverso: la presenza di imprese occidentali in Cina è sempre più massiccia, gli investimenti stranieri sono cresciuti per anni (le aziende sostenute da finanziatori non cinesi formano ormai il 30% di tutta la produzione industriale e più del 55% delle esportazioni), i nostri specialisti della tecnologia e del lusso fanno a gara per essere presenti nelle grandi città cinesi. Oltre la Muraglia, però, poco è cambiato in termini di diritti delle minoranze etniche (55, oltre alla maggioranza Han), dei lavoratori, degli oppositori politici.Per la Cina è sempre il 1989: l’anno delle riforme di mercato e di Tienanmen, della proclamata libertà di mercato e della conclamata repressione del dissenso. Tutto questo, però, rivela più un problema 'nostro' che un problema 'loro'. E’ impossibile che un Paese (e ancor più, un grande Paese) produca qualcosa di diverso da ciò che gli dettano la storia e le necessità. La Cina deve nutrire ogni giorno 1 miliardo e 300 milioni di persone e nello Xinijang si trovano non solo gli uiguri (il 46% della popolazione) ma anche il 25% delle riserve di gas e del petrolio e il 40% di quelle di carbone: è troppo preziosa e Pechino se ne assicura il controllo con i metodi che ha sempre praticato. Questo non vuole dire capire le stragi, tanto meno approvarle. E neppure accettare la decisione annunciata ieri di mettere a morte i «responsabili di violenze» nello Xinjiang. Ma solo rendersi conto che la coniugazione dei diritti dell’uomo con il progresso economico e sociale è un frutto della nostra storia (segnata appunto dalle radici giudaico­cristiane che molti ancora stentano a riconoscere), non della loro. E’ la nostra più importante conquista, il nostro punto di forza, il vero patrimonio che possiamo esportare. L’impresa non è impossibile. A patto però di capire che non la compiremo facendo la faccia feroce, diffondendo generosi appelli individuali o promuovendo la buona volontà delle singole nazioni. Quello a cui bisogna arrivare è uno sforzo congiunto delle nazioni che riconoscono come fondativi determinati valori, primo fra tutti il rispetto della persona. Se America del Nord, America del Sud ed Europa cominciassero ad agire di concerto su questa base, e a moderare con criteri etici la pur legittima pratica degli interessi nazionali, anche colossi come Russia e Cina dovrebbero pian piano adeguarsi. Per non parlare dei Paesi più piccoli che, in Asia come in Medio Oriente, prendono l’esempio dei 'cattivi' soprattutto perché manca l’esempio dei 'buoni'.
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