martedì 21 giugno 2016
​Una potente sveglia al governo, ma anche l'evidenza del ruolo gregario del centro-destra e una messa sotto stringente esame dei 5 stelle che si apprestano a governare due emblematiche metropoli italiane. L'analisi del dopo voto di Marco Tarquinio.
Non protesta ma voglia di cambiare
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Contare i voti è sempre più facile che pesarli. Stavolta non è così. E meno male, perché altrimenti l’analisi delle Amministrative di giugno 2016 risulterebbe complicata e rischierebbe di rivelarsi fuorviante. Infatti, se dovessimo dedicarci a una pura e semplice conta delle bandierine, a partire da quelle piantate sui Comuni capoluogo, sarebbe comunque chiaro che il Pd esce sconfitto: è impressionante il tonfo da 20 a 8 super sindaci, la disfatta è stata evitata solo dalla conquista-bis di Milano grazie a Beppe Sala. Ma sul vincitore finiremmo per prendere un abbaglio. Vincente, numeri alla mano: un balzo da 4 a 10 super sindaci, sembrerebbe il centro-destra (tornato "col trattino" nell’era faticosamente postberlusconiana delle aspre guerre intestine) che però, nonostante il ritorno alla guida del Comune di Trieste, si rivela incapace di giocare da protagonista sulla grande scena politica. A trionfare è invece il Movimento 5 Stelle, che di super sindaci – anzi di super "sindache" – ne porta a casa appena 3, ma 2 di enorme valore: Roma, con le clamorose proporzioni finali del successo (annunciato) di Virginia Raggi, e Torino, dove Chiara Appendino ha conquistato a spese di Piero Fassino una vittoria di prima grandezza politica, il risultato che fa davvero la differenza in questo passaggio elettorale.Matteo Renzi, premier e segretario del Pd, ha saputo riconoscere tutto questo con la sua migliore franchezza al cospetto di un partito sotto choc: «Ha vinto chi ha saputo interpretare meglio un’ansia di cambiamento». E colpisce, ma non stupisce, che si tratti degli stessi identici concetti usati, in contemporanea, da Beppe Grillo. Non per caso Pd e M5S si delineano come i grandi duellanti di un tempo politico tripolare in cui il centro-destra c’è, ma ha perso tempo e ruolo, facendosi illudere dal battutismo e dal cinismo politico simil-lepenista di Matteo Salvini (che mentre si concentrava, invano, sulla "conquista" della capitale d’Italia, ha perso Varese, storica "capitale" della Lega Nord).È vero, in quest’Italia in cui troppi si consegnano – anche con serie motivazioni e per delusioni forti – al non-voto, ha vinto chi ha saputo interpretare una basilare volontà «di cambiamento» degli elettori e, per sovrappiù non solo tecnico, ha padroneggiato meglio lo spartito offerto dal voto di ballottaggio. Lo studio sui flussi elettorali elaborato a caldo dall’Istituto Cattaneo segnala, proprio a questo proposito, qualcosa di molto interessante. Si è consolidata la tendenza al travaso di voti al secondo turno dal centrodestra al M5S in chiave anti-Pd, ma è emersa una propensione nuova e molto "politica" di parte dell’elettorato grillino a fare altrettanto nella medesima chiave anti-Pd, anzi decisamente anti-Renzi. Questo potrebbe influire assai, nel prossimo autunno, sull’esito del referendum sulla riforma costituzionale (anche se in quella partita giochi e interessi sono ben più complessi dei dichiarati). Si vedrà. Per intanto, però, la portante del fenomeno è chiara: la contrapposizione frontale destra-sinistra che aveva caratterizzato la cosiddetta Seconda Repubblica, schiacciando o riducendo ai minimi termini ogni tentativo terzopolare, non penalizza affatto il M5S che anzi continua a sfruttarla. Con risultati eloquenti: 19 successi su 20 ballottaggi affrontati fanno pensare e segnalano che i cittadini là dove "vedono" una proposta alternativa alla "vecchia politica" autoreferenziale, troppo politicante e poco efficiente rispetto alle loro civiche attese, la scelgono. E non è un mistero che alle prossime politiche, come e più del 2013, l’offerta M5S sarà accurata e omogenea.Certo, questo voto «di cambiamento», di cui anche il Pd di Renzi ha goduto nel 2014, è in buona parte frutto di un mix di disillusione e di speranza più che di profonda convinzione. È dunque un voto potenzialmente volubile, ma soprattutto è un voto che pesa e che si somma all’altrettanto pesante (e, spesso, pensante) non-voto d’attesa. E tanto basta. Basta a dare una potente sveglia all’attuale governo, al suo partito perno e al suo capo inclini a cullarsi soprattutto nell’ultimo anno sull’idea di un’autosufficienza che tutto consente e nulla sconta. Basta a enfatizzare il perdurante ruolo gregario del centro-destra per insufficienza di leadership e di affidabilità "moderata". Basta a mettere sotto stringente esame il M5S che, al grido di «onestà onestà» e con la promessa di una felice efficacia, è approdato di forza al governo di due emblematiche metropoli italiane.
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