lunedì 25 maggio 2009
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Bisogna saper alzare lo sguardo sul futuro del­la società italiana, e bisogna farlo ora. La ri­flessione e la 'chiamata a dibattito' con le quali il cardinale Angelo Bagnasco ha aperto ieri i la­vori dell’assemblea dei vescovi sembrano basar­si in buona parte sulla consapevolezza di questa urgenza. L’argomentare del presidente della Cei porta direttamente al cuore dei problemi, con u­na chiarezza e una pacatezza che ci piacerebbe cominciare a ritrovare nel confronto tra i prota­gonisti della scena pubblica nazionale. Le sfide da affrontare, le occasioni da cogliere e i nodi da sciogliere nella vita della comunità cri­stiana finiscono, del resto, per incrociare regolar­mente le grandi questioni che segnano la vicen­da civile del nostro Paese. E la Chiesa – in forza della sua straordinaria presenza e della sua profonda conoscenza della quotidianità della no­stra gente – è nelle condizioni di segnalare pro­blemi, allarmi e opportunità semplicemente fa­cendo il proprio 'mestiere'. Che è quello di an­nunciare Gesù Cristo, di riconoscerlo nel volto di ogni fratello e di testimoniarlo intervenendo con­cretamente al fianco di coloro che sono in situa­zioni difficili ( a causa della crisi economico- fi­nanziaria così come del sisma che ha martoriato l’Abruzzo; a motivo dell’emigrazione lontano dal­la propria terra così come delle malattie o della solitudine o, ancora, della generale e preoccu­pante caduta di tensione e capacità educativa ...). Un 'mestiere' che è anche e soprattutto quello di chiarire che la carità è sorella della verità e che sen­za la «verità sull’uomo» – senza cioè la disponi­bilità ad assumere il «valore incomparabile della dignità umana» in ogni «istante e condizione» del­la vita e, dunque, dell’«uguaglianza tra tutti gli es­seri umani» – non ci potrebbe essere la grandio­sa libertà di «un amore effettivamente altruista». E viene da annotare quanto sia curioso il fatto che questa Chiesa che parla della « verità sul­l’uomo » e, dunque, fa con fedeltà il 'mestiere' che le è stato affidato sia, per alcuni, addirittura im­putabile di arcigno «disinteresse» per ciò che è u­mano o, a giorni alterni, di «interventismo » in campi non suoi... Il cardinal Bagnasco torna, anche per questo, a ri­cordarci che carità e verità sono inseparabili. E che non si può contrapporre la via doppiamente buona (per i risultati che dà e per i consensi che suscita) della solidarietà a quella doppiamente ardua (perché a volte più difficile da spiegare e meno semplice da percorrere) della difesa di cru­ciali affermazioni bioetiche. Perché è a partire da questi princìpi – condensabili, appunto, nel va­lore mai negoziabile della persona umana – che lievita l’azione efficace e coinvolgente di una Chie­sa che «non fa selezioni» e sta con ogni uomo sul­la «via crucis» che gli tocca di percorrere. Riconoscere la «verità sull’uomo» è, in effetti, il modo più radicale e profondo per alzare lo sguar­do e renderci capaci di futuro. Ed è, suggerisce ancora l’arcivescovo di Genova, il punto di par­tenza anche del ragionamento possibile e neces­sario sul fenomeno dei migranti. Non dobbiamo lasciarci schiacciare dal peso dell’emergenza, che produce un’ansiosa sindrome d’assedio, e da un orizzonte che non va oltre la costa nordafricana, dalla quale salpano gli scafi dei disperati e a cui, per anni, sono troppo spesso tornati tragici relit­ti e, da qualche tempo, mesti gruppi di «respin­ti». Come italiani e come europei non possiamo rassegnarci a visioni e risposte palesemente ina­deguate, e abbiamo davanti due sfide decisive. Dobbiamo saper guardare alla radice del proble­ma (le «condizioni economiche e sociali» dei Pae­si di emigrazione), interpretando con continuità una politica di cooperazione internazionale che i contraccolpi della crisi mondiale hanno reso an­cora più esile e che la lezione impartitaci da que­sta stessa crisi dovrebbe invece indurci a irrobu­stire una volta per tutte. E dobbiamo creare le condizioni per un’«effettiva integrazione» degli immigrati. Può sembrare uno slogan tristemen­te consumato dal non-uso, ma è e resta l’antido­to al rischio che il tessuto delle nostre città, delle nostre comunità, si slabbri e spezzetti. È il modo per evitare che l’incistarsi di «enclave etniche», frutto di un multiculturalismo destinato a pro­durre contrapposizioni, per far crescere un posi­tivo contagio tra persone e culture e affermare con chiarezza la logica dei diritti e dei doveri che porta ai «patti di cittadinanza». ll presidente della Cei spiazza, insomma, tutti ri­spetto ai luoghi comuni delle ultime settimane. E indica l’opportunità di cominciare a progetta­re e a costruire davvero, forti della nostra seco­lare identità, il 'luogo comune' dello stare in­sieme di cittadini vecchi e nuovi. È una prova obbligata che ammette errori e correzioni, non più ritardi.
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