Alitalia e i molti rischi del prestito ponte
giovedì 4 maggio 2017

I contribuenti italiani farebbero meglio a mettersi subito il cuore in pace: non avranno indietro i 600 milioni di euro che il governo ha appena prestato ad Alitalia. I ministri non vorrebbero dirlo – anzi, lo negano apertamente – ma inevitabilmente tra una dichiarazione rassicurante e l’altra questo concetto sfugge loro di bocca: il prestito ponte all’ex compagnia di bandiera va considerato come un versamento a fondo perduto. Ieri ad esempio è capitato a Carlo Calenda, responsabile dello Sviluppo economico, che intervenendo a Radio Anch’io ha sommato quei 600 milioni ai 7,4 miliardi indicati dall’Area Studi di Mediobanca come «stima dei costi diretti, pubblici e collettivi, originati dalla gestione Alitalia dal 1974 al 2014».

Con questa somma il ministro ha raggiunto la cifra tonda di 8 miliardi ma soprattutto ha involontariamente lasciato capire che lui stesso sa di dovere aggiungere l’ultimo prestito ponte al conto dei soldi che negli ultimi quarant’anni gli italiani hanno regalato al vettore tricolore. Speriamo di essere smentiti, ma tutto lascia pensare che il prestito ponte non sarà rimborsato e tantomeno gli italiani incasseranno gli strabilianti interessi (un tasso del 10% più l’Euribor, è stato promesso, forse dimenticando che al momento l’Euribor è negativo...) utili più che altro a etichettare l’operazione come 'di mercato' così da evitare un immediato stop da Bruxelles. Non c’è la fila per comprare Alitalia così com’è, figuriamoci se al 'pacchetto' rappresentato da una disastra compagnia aerea incapace di fare utili da vent’anni si aggiungono 630 milioni di euro circa da restituire allo Stato. È inutile, per quanto si possa rigirare la questione il conto dell’operazione non torna. Almeno non a livello economico.


Non si capisce secondo quali calcoli per lo Stato sarebbe stato più costoso lasciare che Alitalia si gestisse la sua amministrazione controllata senza questi 600 milioni di euro di soldi pubblici. Calenda ha citato i 4,9 milioni di passeggeri che hanno già comprato i loro biglietti, ed è vero che se l’azienda fosse rimasta con le casse vuote e gli aerei fermi, loro (ma non lo Stato) ci avrebbero perso i soldi. Così come ci avrebbero perso i 12mila dipendenti, che invece dello stipendio avrebbero presto iniziato a incassare sussidi di disoccupazione. «Una liquidazione in pochi giorni di un’azienda così importante avrebbe significato mettere in difficoltà migliaia di famiglie» ha confermato in televisione il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, ammettendo indirettamente che con questi aiuti l’esecutivo ha dato ragione a chi spingeva per rifiutare l’intesa raggiunta tra i sindacati e l’azienda a metà aprile (quella che avrebbe lasciato andare avanti Alitalia con 2 miliardi di euro di risorse private) perché tanto il governo li avrebbe salvati lo stesso.

E infine ci avrebbero perso, almeno nelle prime settimane, i fornitori, le aziende aeroportuali, il resto dell’indotto. Ma gli aerei non sono fabbriche: spostarsi è la cosa che sanno fare meglio. Se Alitalia lascia il campo libero, le compagnie rivali, le low cost ma anche quelle tradizionali, sono pronte a organizzarsi per riempire in poco tempo gli spazi lasciati vuoti in quella che, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale per il turismo, è la quinta meta turistica del pianeta, con quasi 51 milioni di visitatori nel 2015.

Fortunatamente, a differenza di Dubai o di Abu Dhabi l’Italia non ha bisogno di sussidiare compagnie aeree per convincere i turisti a visitarla. Il mercato aereo italiano continua a crescere (164 milioni di passeggeri nel 2016, +4,8% rispetto all’anno prima) anche se Alitalia ha una parte sempre più marginale. Resta prima per i voli nazionali, ma è stata scavalcata da Ryanair nel traffico generale e anche da easyJet in quello internazionale. Senza considerare che non siamo un’isola: milioni di turisti – ad esempio i tedeschi, che sono sempre i nostri più numerosi visitatori – arrivano nel Belpaese con le loro automobili. Il turismo italiano, insomma, sarebbe in grado di superare il lutto di Alitalia nel giro di un paio di mesi.

La sensazione è che salvando ancora una volta l’azienda, anche se solo per sei mesi, il governo non abbia voluto mettere la sua faccia sul fallimento definitivo di Alitalia. La bancarotta avrebbe avuto un suo costo per i contribuenti (un miliardo di euro, aveva minacciato Calenda prima del referendum dei dipendenti) ma almeno avrebbe tappato una volta per tutte questo buco contabile con le ali. Invece si tenta di scaricare sui manager di Etihad – che hanno sicuramente le loro colpe e un talento dirigenziale limitato – tutte le responsabilità dell’attuale dissesto, quasi dimenticando che nel 2014 a consegnare agli emiri di Abu Dhabi il controllo dell’ex compagnia di bandiera è stato il governo Renzi, che condivide con quello attuale la quasi totalità della squadra.

Dopodiché si prospettano nuovi rilanci, la ricerca di alleati, altre soluzioni positive da trovare nei sei mesi concessi dai nuovi aiuti. Il tutto in un clima da campagna elettorale che è il peggiore possibile per fare scelte 'tecnicamente' corrette, e non ideologiche (o ancor peggio populiste), per evitare di gettare al vento altri soldi prelevati dai contribuenti.

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