sabato 7 settembre 2013
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Gentile direttore,
sono una giovane neolaureata, in cerca di lavoro. A fine luglio mi sono recata al mio Ufficio Scolastico Regionale, senza grandi speranze, ma con buona volontà e il desiderio di chiarirmi le idee. La tristezza, la mediocrità e il lassismo hanno cercato di imprigionarmi. Cinque piani di edificio dedicati a un ufficio dall’aspetto dimesso, cadente come la foto della costa regionale che fa capolino da sotto la cornice che dovrebbe inquadrarla. Un potenziale di spazi, nelle sole sale d’aspetto che ho potuto vedere, non sfruttato, lasciato a vecchi divani dalle molle sfondate. Due ore la settimana di ricevimento al pubblico, per ottenere un colloquio che rinvia ogni problema all’anno seguente – le graduatorie per l’insegnamento riaprono ogni tre anni, ora si può solo aspettare –, ma che colpisce dal punto di vista umano.
Alla mia domanda ingenua, ma dalla quale traspare la giovane fiducia in un inizio, sulle possibilità di insegnamento per una neolaureata, la pigra risposta intrappolata tra i denti, lo sguardo tra fogli e computer: «Nessuna possibilità». Graduatorie chiuse, Tfa non attivo, centinaia di persone in attesa prima di te, con esperienza. Ma da qualche parte bisognerà cominciare per fare esperienza, candidarsi autonomamente ai prèsidi: «Carta sprecata». Sorrido, «Ma non mi è vietato».
Con difficoltà, voglio mantenere salda la speranza e custodire l’energia che sento di poter investire lavorando. E però rischia di distruggere tutto lo scontrarsi con l’indifferenza di un impiegato che pare persino gongolare nel doverti presentare un’amara situazione di stallo. E questo rivela le ragioni dell’attuale malessere sociale: la perdita di sensibilità e di empatia, il nonchaloir che impedisce le relazioni umane e che frena la società è ciò che blocca il Paese, un’entità che dietro la lettera maiuscola dovrebbe costituirsi di persone concrete.
Le informazioni si possono raccogliere da internet – è più comodo, più veloce e più esaustivo –, ma questo non giustifica la mancanza di attenzione umana al prossimo che chiede un consiglio. Un 'no' detto con sincera comprensione, per quanto negativo, incoraggerebbe invece a credere che possa ancora seguire un periodo positivo. Rifuggiamo la sterilità sociale.
Daniela Ma​riani
Condivido totalmente le sue conclusioni, gentile e cara Daniela. Torno indietro con la memoria e mi metto facilmente nei suoi panni, ma – con un po’ più di difficoltà, e non me ne dispiace – riesco a mettermi anche in quelli del funzionario ministeriale che si mostra «indifferente» (o forse è solo annoiato o, magari, raggelato o, perché no?, sgomento) davanti all’ansia di futuro di una persona giovane che – con metodo, speranza ed entusiasmo – ha preparato 'risposte' sensate ed energiche al futuro suo e della comunità di cui è parte, ma non trova 'domande' altrettanto pronte e sensate che le valorizzino. Eppure quelle sue 'risposte', giovani e perciò perfettibili e non del tutto prevedibili, sono assolutamente essenziali.
Ciò che una ventenne o un trentenne possono offrire a una comunità – e in ogni settore, ma proprio in tutti: dalla scuola alla politica, dalla ricerca scientifica all’arte – nessun altro può offrirlo nello stesso modo al posto loro. Ho sempre più chiaro, e coi miei colleghi cerco di fare qualcosa per ricordarlo anche ai distratti, che in questo Paese dobbiamo tornare a riconoscere (non a dare, né a riservare, ma a semplicemente a 'vedere'…) il naturale spazio e il giusto tempo dei giovani, un tempo che non può continuare a essere quello di una stralunata partita sociale che tiene troppi di loro a bordo campo, a sgambettare senza senso, mentre impone i 'supplementari' agli anziani e persino agli acciaccati... Penso proprio che dobbiamo reimparare a impegnare a dovere lo slancio e la ricchezza di cui i giovani sono portatori, altrimenti niente e nessuno ci strapperà dalla brutta china sulla quale ci siamo incamminati, anzi rattrappiti.
L’esperienza che, fin qui, ho fatto mi aiuta a sentire l’amarezza ma anche la forza di entrambe le condizioni, la sua e quella di chi le sta davanti e, almeno apparentemente, la osteggia. E il lavoro che svolgo, in questa fase della mia vita professionale, mi fa sperimentare che cosa significa, e quanto pesa, ritrovarsi a dover dire con concretezza e responsabilità a giovani che bussano, a volte persino impazientemente, anche alla mia porta e nei quali mi rivedo: «Mi dispiace, non c’è modo qui, ora…». Per questo aggiungo sempre: «Sono sicuro che la resa non è in programma…». E, quando mi rendo conto di poterlo fare, non rifiuto qualche (spero non sterile) consiglio. C’è un detto che anch’io amo molto e che suona più o meno così: chi vuole su serio qualcosa cerca una strada, gli altri una scusa. Lei è una che non inventa scuse. Troverà la strada. Ma nel cantiere delle strade di domani il compito della mia generazione è molto chiaro.
C’è da spalancare l’Italia. E non c’è più scusa che tenga, né inerzia.
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