sabato 20 aprile 2013
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Non si sa se sia più allegro o più paradossale ma l’annuncio dell’accordo tra Serbia e Kosovo, da molti subito definito "storico", è arrivato via Twitter. Poche righe e un lampo di bit per archiviare una guerra che per gli uni è stata di secessione e per gli altri d’indipendenza, che ha visto pagine di brutalità primitiva e che ancora oggi solleva dibattiti feroci in cui in un attimo ci si ritrova tra battaglie medievali, imperi ottomani o russi e principati rinascimentali. Anche se l’accordo, come si dice in diplomazia, è per ora solo "parafato" (necessita, cioè, di una ratifica da parte dei Parlamenti o tramite referendum), e non si conoscono ancora i dettagli sulle questioni più spinose (in particolare per quanto riguarda l’enclave nel Nord del Kosovo, popolata da circa 50mila serbi, ai quali dovrebbe essere garantito un alto livello di autogoverno), la notizia è ottima sotto ogni punto di vista. Intanto, è un ulteriore passo formale verso la chiusura definitiva di una stagione violenta, quella degli anni Duemila, che è stata per l’Europa intera il punto moralmente e politicamente forse più basso dalla fine della Seconda guerra mondiale. E, quel che più conta, il primo passo concreto per chiudere, nel calderone dei rancori balcanici, una delle faide più antiche e difficili da sanare. Moltissime persone per moltissimo tempo sono morte o hanno sofferto in suo nome, e questa bozza di accordo è il primo omaggio non interessato alla loro memoria. Ma l’accordo in quindici punti siglato dal primo ministro serbo Ivica Dacic e da quello kosovaro Hashim Thaci avrà ricadute positive anche in un senso solo apparentemente più venale. Conviene al Kosovo e alla Serbia, che s’impegnano solennemente a non ostacolare il reciproco cammino di adesione all’Unione Europea. Il che significa che già lunedì 22 aprile i ministri degli Esteri dei 27 Paesi Ue potrebbero annunciare una data d’inizio per i negoziati di adesione con la Serbia e una per le trattative in vista dell’Accordo di stabilizzazione e associazione del Kosovo (il processo che precede, appunto, quello di adesione). Sono momenti fondamentali, che i due Paesi hanno cercato e atteso a lungo, consci di quante conseguenze positive possano derivarne per lo sviluppo delle loro sempre vacillanti economie. Con solo 1,7 milioni di lavoratori che ricevono un regolare salario su 7 milioni di abitanti, il sommerso che rappresenta oltre il 30% del Pil e un debito pubblico in costante aumento, la Serbia ha disperato bisogno di inserirsi in un circuito commerciale di ampio respiro, pena condannarsi al modesto ruolo di fabbrica a basso costo di prodotti altrui. Altrettanto, se non peggio, si può dire per il Kosovo, dove il 35% delle imprese opera nel commercio al dettaglio e nella riparazione di automobili (in pratica, piccoli laboratori familiari) e dove i veri agenti di stabilità sono gli aiuti americani (in Kosovo si trova la più grande base Usa in Europa) e le rimesse degli emigrati. Per crescere in modo sano e civile, Kosovo e Serbia hanno bisogno dell’Europa. Ma anche l’Europa ha bisogno di loro. Per completare l’integrazione dell’ex Jugoslavia e aprire così un nuovo e vitale spazio di azione economica. Ma anche per spalancare verso Est le porte dell’Unione e sottrarre così le rotte della globalizzazione alle forche caudine imposte dai più forti. In altre parole, per la pacificazione di Kosovo e Serbia e la loro sistemazione in una rete di corretti rapporti commerciali passa anche la possibilità di accedere con molti meno ostacoli ai grandi giacimenti energetici della regione del Caspio e di sottrarsi così alle condizioni imposte dal Cremlino o, di volta in volta, dal Gheddafi di turno. Non succederà domani, certo, ma succederà. Ed è bello, una volta ogni tanto, anticipare gli effetti della pace in azione.
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