lunedì 25 marzo 2013
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​Il nostro è un tempo non facile, né tranquillo. È necessario, per comprenderlo, uno sguardo non superficiale o smemorato, che sappia rendersi conto della sua complessità e, a volte, della sua durezza. È la crisi di tanti punti di riferimento, di tanti legami, di tanti vicinati. È la crisi di un mondo frammentato, in cui è difficile per popoli e individui trovare o ritrovare le ragioni della speranza e della convivenza. Parlando venerdì scorso al Corpo diplomatico, papa Francesco ha chiesto con dolcezza di imparare a trovare nell’altro un fratello e non un nemico. Sono parole importanti perché in questi anni, segnati da una globalizzazione che ci avvicina e ci rimescola, non si è sempre riusciti a diffondere questo messaggio insieme semplice ed essenziale. Nel primo decennio di questo secolo si è quasi scommesso sullo scontro, di civiltà o di religione, si è investito sulla guerra; con scarsissimi risultati, con tanti lutti, con tante situazioni che si sono incancrenite. Oggi, fortunatamente, la cultura dello scontro gode di minor favore. Ma sotto traccia continua a farsi strada l’incomprensione dell’altro e si vive la scorciatoia della contrapposizione come modo di sottrarsi alla frustrazione della crisi economica, all’angoscia di un futuro difficile.Di questo clima malato e antagonista sono in tanti a fare le spese. Ma più di tutti i poveri, i deboli, gli indifesi, i miti. Basti pensare alla condizione dei cristiani in tante aree del pianeta. La vita di piccole comunità sparse nel vasto mondo, come pure l’itinerario di milioni di esistenze individuali, sono sotto scacco. In tanti sono minacciati, intimiditi, colpiti. In tante parti del mondo i cristiani vivono sotto la croce, e a volte vi salgono.Come è possibile allora dimenticare la croce? La profezia della croce, di cui ha parlato papa Francesco, «per non essere mondani ma discepoli» ci coglie in tanti contesti particolari, l’uno diverso dall’altro. Ma il nostro personale orizzonte, anche non semplice a volte, non può distrarci da questa prospettiva. I cristiani in Pakistan continuano a soffrire, si verificano con una drammatica frequenza aggressioni contro comunità isolate e minoritarie. Spesso si fa leva sull’accusa di blasfemia, che in realtà cela risentimenti personali o interessi su terre, case, attività economiche. È stato il caso, recentemente, dell’assalto a Joseph Colony, a Lahore, dove una folla di estremisti ha dato alle fiamme decine di abitazioni, costringendo alla fuga la popolazione. Non vanno dimenticati i cristiani in Indonesia, in Nigeria, Kenya e Tanzania, dove si muore perché si va in chiesa, dove chiese e scuole cristiane vengono bruciate. In Cina, dove la libertà religiosa è compressa. Come dimenticare tutto questo? I nostri fratelli sono sotto la croce. Non possiamo restarne lontano. Siamo un’unica famiglia, sparsa in tutti i continenti. E il cristianesimo è una fede virile, capace di segnare intere generazioni, di trasformarle, di donare coraggio e perseveranza. Davvero, come dice papa Francesco, Cristo crocifisso è la nostra «unica gloria».La Domenica delle Palme, coincide quest’anno con l’anniversario del martirio del vescovo Oscar Romero, ucciso il 24 marzo di 33 anni fa, mentre celebrava l’Eucarestia. Romero è rimasto accanto al suo popolo, pastor et custos di poveri contadini stritolati nella polarizzazione tra repressione e guerriglia che regnava nel Salvador di allora. Con lui, tanti martiri hanno contribuito a trasformare il mondo, riorientandolo in una prospettiva diversa, quella della difesa della vita e della dignità umana. Se si vive in un contesto più tranquillo e non si conosce la croce in prima persona, bisogna almeno aiutare gli altri a portarla, nel ricordo, nella preghiera, nella mobilitazione, nell’aiuto concreto. La croce, in questa stagione, ci appare ancora una volta come un segno di contraddizione, che provoca, interroga, chiama a vivere il «coraggio» – dice papa Francesco – di un’antica e sempre nuova, e imprescindibile, profezia.
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