venerdì 10 marzo 2017
Lunedì inizia a Montecitorio il dibattito sul consenso informato e sulle Dat
Accanto al paziente senza ambiguità
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Legge sul fine vita, le zone d’ombra da chiarire Da lunedì nell’aula di Montecitorio sarà in pieno svolgimento la discussione della proposta di legge sul consenso informato e le Dat (Disposizioni anticipate di trattamento). Il testo uscito dalla Commissione Affari sociali appare al momento fortemente insoddisfacente e inidoneo a escludere il rischio di una apertura all’eutanasia, seppure non dichiarata e limitata alla sola versione omissiva. A parole almeno, non vi sarebbe una ostilità preconcetta ad accogliere emendamenti migliorativi, anche se la disponibilità manifestata deve tener conto della contrarietà di una parte importante dei proponenti: non solo di M5S, Si, Mdp, ma anche di ampi settori dello stesso partito della relatrice Donata Lenzi, il Pd. Oggettivamente difficile, inoltre, emendare un testo nato su due errati presupposti: un presunto illimitato diritto individuale all’autodeterminazione e la valenza universalistica del provvedimento, indipendentemente dalle condizioni di salute del soggetto interessato.

Quali dunque gli spazi percorribili per evitare che l’assistenza al suicidio possa rientrare in futuro tra i compiti delle istituzioni sanitarie e che la vocazione di cura delle professioni sanitarie possa risultare snaturata dalla nuova legge? Un modo, se si volesse, sarebbe appunto quello di spostare l’accento dal piano delle previsioni generalizzate a quello del contesto clinico. Per quanto riguarda nutrizione e idratazione diversa è la condizione del malato terminale da quella del disabile stabilizzato: ciò che nel primo caso potrebbe essere ostinazione terapeutica contro un esito ineluttabile nell’altro è doverosa assistenza, sottrarre la quale equivarrebbe ad aver deciso di affrettare la morte del paziente. In particolare, si tratterebbe di suicidio se fosse il paziente stesso ad assumere la decisione, o di eutanasia da omissione di cure se a decidere su un incapace fosse chi legalmente lo rappresenta. Allo stesso modo, una malattia a decorso progressivo e a esito inevitabilmente infausto è cosa diversa da una condizione transitoria di danno, anche gravissimo, ma potenzialmente suscettibile di miglioramento. Nel primo caso sospendere le cure consente alla malattia di proseguire nel suo decorso ma non è causa del decesso del paziente, nel secondo lo priverebbe anche di ogni speranza di recupero, decidendo che nelle sue condizioni è meglio morire. E ancora, a seconda dei casi, l’idratazione può per il paziente coincidere con la terapia stessa, ovvero essere il veicolo attraverso il quale somministrargli le terapie, oppure il sostegno del suo metabolismo indipendentemente dalla condizione di malattia, o infine, in taluni casi, anche un fattore di aggravamento delle sue condizioni cliniche perché mal tollerata o dannosa.

È evidente che il giudizio sul significato della decisione di sospenderla non potrebbe che essere diverso nei diversi casi. Vi sono poi casi in cui la stessa palliazione del dolore può rendere necessario che l’idratazione continui a essere assicurata per una corretta somministrazione dei farmaci. Per quanto riguarda l’autodeterminazione, la prima cosa di cui accertarsi dovrebbe essere quella di un’effettiva autonomia delle scelte, libera da condizionamenti di natura psicologica, familiare, sociale o economica oltre che fondata sul presupposto di una piena sanità mentale.

Nello spirito della Convenzione di Oviedo, poi, a nessuno dovrebbe essere riconosciuto il diritto di prendere decisioni sulla vita di chi non può autodeterminarsi perché minore o incapace, se non in vista di un suo diretto beneficio, un beneficio che certo non può consistere nella sua morte. Inoltre, se nessuno può certo imporre a un paziente di curarsi, altrettanto certamente nessuno può imporre al medico di collaborare al progetto di chi ha deciso di farla finita. Come potrebbe dunque un medico essere tenuto a togliere il sondino o la cannula di chi ha deciso di lasciarsi morire o, peggio, essere costretto a toglierlo al minore o all’incapace che un altro ha deciso di lasciar morire? Per quanto poi riguarda le strutture sanitarie, se esse debbono certamente accompagnare l’evoluzione della malattia in un paziente che abbia deciso di non curarsi non dovrebbero, tuttavia, diventare il luogo in cui porre in atto la scelta suicidaria o quella eutanasica. Ciò tanto più quando si tratta di istituzioni sanitarie che furono fondate per testimoniare la vicinanza della Chiesa verso i malati e per riaffermare l’inalienabile dignità di disabili e malati, non importa se gravi o incurabili. Sarebbe grave se scelte di natura ideologica, logiche congressuali o timori di convergenze anomale prevalessero su argomenti di natura clinica, di deontologia professionale e di umanità vera.

* deputato di Democrazia solidale - Centro democratico presidente nazionale del Movimento per la Vita

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