mercoledì 25 settembre 2013
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Può sembrare paradossale che mentre il governo si preoccupa di sostenere un piano ambizioso per attrarre investimenti esteri nel nostro Paese – "Destinazione Italia" è stato chiamato – con il presidente del Consiglio, Enrico Letta, impegnato oltre confine a vendere un’immagine attraente e competitiva della Penisola, gli stranieri si stiano comprando pezzi rilevantissimi di made in Italy e colossi attivi in settori strategici come le telecomunicazioni e il trasporto aereo. In realtà il paradosso è tale solo nella coincidenza dei tempi, e può offrire diversi spunti di riflessione.

La vendita di Telecom Italia agli spagnoli di Telefonica e di Alitalia all’Air France sono operazioni che giungono a maturazione in queste ore e rappresentano l’esito di un percorso molto più lungo e per certi versi inevitabile, se si valutano anni e anni di errori politici e imprenditoriali. La cosa che colpisce, e che non può lasciare indifferenti, è che noi italiani stiamo quasi rischiando di assuefarci alla consuetudine dello shopping straniero, mai così attivo e visibile. I marchi della moda come Bulgari, Gucci o Loro Piana, i nomi dell’alimentare come la Parmalat, ora gli ex giganti pubblici Telecom e Alitalia, le aziende dell’energia e dei trasporti di Finmeccanica, squadre di calcio come l’Inter e la Roma.

Una dismissione lenta e inesorabile, in tutti i campi, che è difficile bilanciare – per peso e valore simbolico – con le operazioni che il migliore made in Italy sta comunque compiendo all’estero, e che restituisce senza troppi sconti l’immagine drammatica di un Paese in svendita. Lo spettro di un "Outlet-Italia", agitato da Letta nei giorni scorsi, rischia di essere già una realtà molto tangibile. E sono perfettamente comprensibili le reazioni preoccupate di buona parte del mondo politico, dei sindacati, dei consumatori.

Più che lo straniero, tuttavia, il sistema Italia dovrebbe temere – vigilando per evitarla – una possibile cattiva gestione delle operazioni che si presentano, guardarsi dagli eventuali effetti negativi per le persone, il lavoro e gli investimenti nel nostro Paese. Pensare che nella dimensione europea possano resistere e competere campioni italiani e solo italiani, in fondo, è esercizio abbastanza illusorio. Il consolidamento di grandi gruppi in settori importanti, se le condizioni di mercato sono assicurate, e se le authority assolvono il loro compito, è una strada lecita e legittima. La storia di Telecom e Alitalia, come della Parmalat, ci insegna invece che troppo spesso i peggiori nemici dell’interesse nazionale siamo proprio noi stessi.

Limitandoci al caso Telecom, siamo stati noi, è stato il nostro capitalismo con le sue aderenze politiche, a caricare l’azienda di debiti insostenibili e a spolparla pezzo dopo pezzo, fino a renderla una preda naturale e a basso prezzo per un gruppo straniero. Il quadro che restituisce la vicenda nazionale del capitalismo senza capitali è quello di un Paese che ha ricchezze innegabili eppure non dispone di grandi mezzi economici, ma che soprattutto ha un pesantissimo deficit a livello di classe dirigente. E che un Paese così continui a "espellere" tanti dei suoi giovani migliori e più promettenti è, al tempo stesso, spiegabile e incredibile.

Durante la fase più acuta della crisi e della speculazione dei mercati contro l’Italia, qualcuno – anche su queste colonne – diceva: «Questa è una guerra, per sapere chi l’ha scatenata basterà aspettare di conoscere chi avrà comprato le aziende tra le macerie». Erano, e sono, parole forti, ma è un dato di fatto che la crisi finanziaria scoppiata nel 2007 ha messo in ginocchio il sistema bancario nazionale, privandolo della capacità oltre che della voglia di dare credito a operazioni più grandi delle competenze gestionali e morali che le muovevano.Non si può dire ora se questo sia un bene oppure no. Quello che la politica può fare, oggi, se ne ha le forze e l’intelligenza e se si concede un tempo davvero "di servizio", è evitare che l’Italia si riduca a un terreno di conquista, fare in modo cioè che i capitali che qui venissero destinati non servano a saccheggiare, fare spezzatini e poi spolpare ciò che resta – ed è molto – di buono. La storia ci ha insegnato che ci sono stati investimenti che hanno saputo rispettare contesti, tradizioni e posti di lavoro, altri che hanno bruciato competenze e desertificato. A prescindere dai colori. È solo la buona politica che riesce ad assicurare gli interessi dell’Italia e degli italiani nelle rivoluzioni degli assetti di mercato. Ma come dimostrano i Paesi che in Europa meno hanno conosciuto l’onta del saccheggio, e che non a caso continuano a giocare un ruolo di locomotiva, la politica da sola non può nulla se non è supportata dal contributo di parti sociali realmente all’altezza del compito. E meno furore ideologico, in un senso come nell’altro, si usa in questi frangenti, e meglio è per tutti.

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