sabato 19 settembre 2009
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È ormai fin troppo facile indicare Mogadiscio come una «terra di nessuno». La tragedia della Somalia – a partire dal fallimento dell’operazione multinazionale «Restore Hope» – è l’emblema di uno Stato fallito e in liquidazione, in cui l’intervento internazionale, debole e pasticciato, non è riuscito nel suo positivo intento. Il sanguinoso attentato di giovedì scorso nella capitale somala, in cui hanno perso la vita almeno 21 peacekeeper burundesi e ugandesi, è un’ulteriore dimostrazione della strategia del caos messa in atto dai nemici della pace, contro la quale la comunità internazionale ha il diritto/dovere d’intervenire con sagacia e oculatezza. Anzitutto, occorre sfatare certi luoghi comuni che inducono a una semplificazione eccessiva della realtà rispetto a quello che sta effettivamente accadendo sul campo. Ad esempio, l’affannoso tentativo di dimostrare la presenza di al-Qaida in Somalia ha prodotto, tra l’altro, la radicalizzazione dell’opposizione di matrice islamica, le cui scelte politiche e militari – nonostante la loro forte connotazione locale – tendono sempre più a prendere le caratteristiche di quelle sperimentate dalla rete globale del terrorismo, sia in fase di reclutamento sia nelle modalità di combattimento. Nel frattempo, come peraltro accaduto in Afghanistan, le nuove istituzioni transitorie somale – malgrado il sostegno internazionale – stentano ad uscire vittoriose dallo stallo in cui sono bloccate. A questo proposito, andrebbe sottolineato come la politica statunitense abbia contribuito a marginalizzare alcuni gruppi, esclusi dalle trattative di pace, rendendoli docili marionette nelle mani di governi impegnati esclusivamente a perseguire politiche di destabilizzazione regionale. Come nel caso dell’Eritrea e dell’Etiopia, che si combattono per procura in territorio somalo appoggiando gli opposti schieramenti. In questo senso, è davvero un peccato che posizioni sagge, come quelle, ad esempio, espresse da Mario Raffaelli, ex inviato del governo italiano in Somalia, siano state ignorate, soprattutto per la parte in cui sostenevano che la chiave di volta per uscire dall’impasse dovrebbe essere quella di trovare meccanismi di riconciliazione locali, coinvolgendo gli attori presenti sul campo, dalle amministrazioni locali alle milizie islamiche radicali. Ecco perché è giunto il momento di voltare pagina, nella consapevolezza che l’Unione Europea, con l’Italia in posizione privilegiata, può rivestire un ruolo importante nel processo di pacificazione. Grazie soprattutto al profilo di moderazione mantenuto in questi anni, Bruxelles – a differenza del governo di Washington e delle organizzazioni regionali come l’Unione africana e l’Igad – è riuscita a mantenere credibilità agli occhi delle opposte fazioni somale. Più che cercare di porre un freno alla violenza con blitz aerei contro i leader jihadisti, che alla prova dei fatti hanno generato un rigurgito di ferocia senza quartiere, o avallando iniziative negoziali con una legittimità «internazionalmente riconosciuta», ma localmente inconsistente, parrebbe saggio identificare e valorizzare quegli attori davvero influenti sul territorio, indipendentemente dallo schieramento di appartenenza. Senza cedimenti, beninteso, a frange terroristiche che cercano senza posa di infiltrarsi. La stessa strategia che si è in parte applicata nell’ultima fase della presenza americana in Iraq e che ora si propone per l’Afghanistan. Dialogare con i taleban «moderati», non quelli che mettono bombe e seminano morte, rientra tra le opzioni della nuova strategia che molti ora invocano anche a Kabul. La dolorosa lezione somala sia almeno un monito per non commettere in Asia gli stessi errori compiuti in Africa.
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