giovedì 28 aprile 2016
L’evoluzione politica dell’Isola passa sottotraccia. Ricambio generazionale dietro l’apparente immobilismo.
 A Cuba vecchi timonieri per la nuova «revolución»
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Tutto è pronto per lo storico viaggio inaugurale del primo maggio. Quel giorno, gli oltre 700 passeggeri della scintillante nave Adonia della Carnival sbarcheranno all’Avana direttamente da Miami. È la prima crociera fra le due sponde dell’Atlantico dopo oltre mezzo secolo di blocco. Organizzarla non è stato facile. All’ultimo – e non senza polemiche e recriminazioni – il governo cubano ha dovuto eliminare l’obsoleta proibizione, in vigore dal luglio 1999, che impediva ai cittadini nati sull’isola e successivamente espatriati di rientrarvi via mare. Il primo maggio, dunque, i vacanzieri statunitensi – esuli cubani inclusi – potranno sbarcare sulla più grande delle Antille. A poca distanza dal porto, nelle stesse ore, la Revolución celebrerà non con la solita scenografia magniloquente e “orgoglio socialista” la Giornata internazionale dei lavoratori. La coincidenza costringerà ad incontrarsi, almeno per un momento, i vari fusi orari che, di norma, scorrono paralleli sull’isola.  Quello del rigido discorso ufficiale, ancorato agli ingranaggi di un orologio politico abituato a scandire il tempo a rallentatore. E quello del cambiamento incombente, sostenuto dalla normalizzazione con Washington del 17 dicembre 2014 e perennemente accelerato dall’urgenza economica. Nello spazio fra i due, Cuba si muove, ad un ritmo tutto suo. Per questo, è tanto difficile per gli osservatori esterni adeguarsi al passo e intuirne la direzione. L'isola marcia con l’andatura ondulata della “sua” salsa. Emblema di tale cammino tortuoso è il VII Congresso del Partito comunista cubano (Pcc), unico ammesso e cuore del sistema politico nazionale. La riunione, prevista ogni cinque anni, si è svolta all’Avana tra il 16 e il 19 aprile. Nonostante la segretezza ufficiale – i giornalisti stranieri non erano ammessi ai lavori –, i discorsi e i risultati sono subito rimbalzati sui media internazionali, che li hanno definiti «deludenti». Il Congresso è stato liquidato come un cedimento del presidente Raúl Castro all’ala più oltranzista dell’esecutivo. In tal senso si leggono i toni degli interventi, infarciti di retorica anti-yankee ed enfasi sul ruolo del partito unico. A inquietare gli osservatori è stata, però, soprattutto la riconferma per altri cinque anni di Castro, 84 anni, al vertice del Partito. Rieletti pure i principali esponenti del Bureau (il “cervello” della formazione), in primis il numero due, José Ramón Machado Ventura, 85 anni, uno degli ultimi reduci della Sierra Maestra e dei più strenui difensori della Rivoluzione. Una batosta per quanti – soprattutto nelle file del dissenso – attendevano il ritiro della vecchia guarda. Al contrario, alla cerimonia finale del Congresso, ad applaudire i “confermati” è arrivato pure Fidel Castro. Eppure il fratello e attuale leader, in un’arringa di più di due ore, aveva sostenuto, nella stessa sala, la necessità di porre dei limiti di età per la nomenklatura del Pcc: 60 e 70 anni per entrare, rispettivamente, nel Comitato centrale e nel Bureau Politico, i massimi organi decisionali.  Non solo. Raúl – come lo chiamano i cubani – ha ribadito, di fronte agli oltre mille congressisti, la ferma decisione di lasciare la guida del Paese nel 2018. Perché, allora, continuare per altri tre anni a tenere le redini del partito, creando una sorta di “diarchia”? L’apparente paradosso si può spiegare solo addentrandosi nelle pieghe del “moto ondulatorio” di Cuba verso il futuro. «Il fatto è che il VII Congresso non è stato così immobilista come vari analisti sostengono. Tutt’altro…», spiega ad Avvenire Rafael Hernández, direttore e fondatore di Temas, rivista finanziata dal ministero della Cultura eppure indipendente. Tanto che vi scrivono anche esponenti tutt’altro che castristi. Il punto di vista di Hernández è, dunque, utile per orientarsi nel labirinto cubano. «Prima di tutto, concentriamoci sulla nuova composizione degli organi centrali del Pcc», aggiunge. Dal Bureau, sono usciti due importanti esponenti delle Forze Armate: il generale Abelardo Colomé e il ministro dei Trasporti Abel Yzquierdo. Al loro posto, sono entrati cinque civili, di cui tre donne: tutti intorno ai 50 anni e con un curriculum professionale di grande spessore. Il peso dei militari, «guardiani dell’ortodossia rivoluzionaria», è stato dunque ridimensionato. L'iniezione di energie fresche, inoltre, ha fatto calare l’età media dei vertici da 68 a 63 anni. Nessuno dei “rampolli” Castro – in particolare Alejandro e Mariela, entrambi figli di Raúl, e attivi in politica – infine, è stato insediato nel Bureau, a prova della volontà di interrompere la “dinastia” politica. Ancora maggiore, il “ringiovanimento” del Comitato centrale, arrivato a quota 142 esponenti: come nota l’economista cubano statunitense Carmelo Mesa-Lago, il 66 per cento di loro è nato dopo il 1959 e l’età media è inferiore a 55 anni. Il nuovo, dunque, si insinua nei centri nevralgici del sistema senza, però, scalzare il vecchio. E non solo per la determinazione di quest’ultimo di auto-perpetuarsi al potere. «Raúl Castro e un’esigua cerchia di anziani rivoluzionari sono gli unici ad avere la legittimità sufficiente per garantire la transizione senza mettere in pericolo la stabilità del sistema. Non può essere una new entry a parlare di apertura: non avrebbe la forza politica per farlo. Il sostegno di Raúl e dei suoi è fondamentale perché la transizione si compia. Solo un’alleanza tra la nuova e la vecchia guardia può far procedere il Paese sulla via delle riforme», sottolinea Hernández. Del resto, come sostengono Roberto Veiga e Lenier González, creatori del “laboratorio di idee” Cuba Posible, il governo – e i suoi capi storici – può agevolare enormemente il percorso di cambiamento «perché ha una capacità organizzativa e di mobilitazione che nessun altro attore possiede». Nei prossimi 21 mesi, a dispetto dell’immobilismo retorico, il Paese dovrà affrontare un’intensa maratona politica: la modifica della legge elettorale in vista delle legislative di inizio 2017 e della Costituzione. Poi, il 28 febbraio 2018 il momento della verità: Castro lascerà la presidenza nelle mani, probabilmente, anche se il tema resta tabù, del vice Miguel Diaz Canel. Nel frattempo, Cuba dovrà procedere all’«attualizzazione economica del modello» ovvero la progressiva apertura al mercato e, al contempo, agli Usa. Finora, come lo stesso Partito ha ammesso, delle riforme annunciate nel precedente appuntamento, nel 2011, poco più del 20 per cento è stato attuato. «Dal VII Congresso è emersa la volontà di proseguire in tale direzione. Era questo il dato fondamentale, al di là della retorica», conclude Hernández. Anzi, il governo ha anche, di recente, voluto mettere mano a un’altra questione spinosa troppo a lungo accantonata. All’Avana, come riporta Il Sismografo, è cominciato, nella massima discrezione, il dialogo tra esecutivo ed episcopato per definire lo status giuridico della Chiesa nell’isola, come auspicato dal Papa e dai vescovi locali. Dopo gli anni dell’ateismo di Stato, la Costituzione attuale riconosce la libertà religiosa. Non solo. La Chiesa è stata un attore fondamentale nel sostenere il riavvicinamento tra Washington e l’Avana, anche grazie al ruolo di primo piano dell’arcivescovo della capitale, il cardinale Jaime Ortega. Quest’ultimo ha svolto, per quasi vent’anni, un’azione gigantesca e silenziosa per “gettare ponti” e promuovere la riconciliazione all’interno dell’isola. Stavolta, però, il cardinale Ortega non partecipa al colloquio con l’esecutivo. Due giorni fa, papa Francesco ha accettato le sue dimissioni per raggiunti limiti di età: compirà infatti 80 anni a ottobre. Al suo posto, il Pontefice ha nominato monsignor Juan de la Caridad García Rodríguez, arcivescovo di Camagüey, pastore dal forte impegno missionario e uomo di dialogo, il quale ha subito dichiarato: «Spero di riuscire a portare avanti la sua opera». Il momento per la Chiesa è importante: a questa manca una cornice giuridica definita per svolgere la propria missione. L’obiettivo del negoziato è, dunque, quello di eliminare qualunque possibile intralcio burocratico o amministrativo che limiti l’azione evangelizzatrice. I nodi sono tanti: dall’accesso della Chiesa ai media alla presenza di scuole cattoliche all’interno del sistema d’istruzione nazionale. Il percorso sarà, dunque, lungo anche se Raúl sembra determinato a compierlo prima di terminare il mandato. Ventun mesi non sono tanti. Però a Cuba il tempo scorre su fusi paralleli. Che, di tanto in tanto, si incontrano.
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