Gli Usa di Trump un anno dopo
domenica 5 novembre 2017

Nel resto del mondo la sorpresa e gli interrogativi, dal 9 novembre 2016, hanno presto lasciato il posto a una certa rassegnazione, con qualche picco di allarme. Ma gli Stati Uniti, a un anno dall’elezione e a 10 mesi dall’inizio del mandato, stentano ancora a fare i conti con il ciclone Trump. I numeri sono discordanti: quelli dell’economia puntano in alto, con i record assoluti di Wall Street e un milione di posti di lavoro creati in 12 mesi; crollano quelli dei sondaggi sull’inquilino della Casa Bianca, posto che il gradimento del suo operato ha raggiunto il minimo storico del 33%. Non è (solo) merito del presidente se la locomotiva Usa corre a pieno regime, non è (solo) colpa sua se l’Amministrazione – lenta e impreparata nelle scelte per tanti ruoli chiave – non è riuscita a mettersi in moto efficacemente.

In ogni caso, il bilancio vira decisamente verso il rosso, anche per un leader "positivo" e che punta più sul messaggio che sul risultato (sono oltre 36mila i tweet lanciati dal suo profilo personale, 1.500 dal profilo presidenziale in 300 giorni). La possibilità che la sua stessa elezione debba scontare un peccato d’origine, come potrebbe fare pensare l’inchiesta sul Russiagate, è certamente oggi l’ipoteca più pesante (e potenzialmente infamante) proprio perché un eventuale aiuto di Mosca nella campagna elettorale – anche se non sollecitato direttamente – sarebbe la negazione di tutti i capisaldi del programma trumpiano.

Ma, fatta salva la presunzione d’innocenza, i successi di questi dieci mesi sono scarsi, gli stop e i fallimenti numerosi. In politica estera, la crisi nordcoreana resta la più grave e irrisolta. Essa viene da una lunga serie di errori del passato, ma rischia di precipitare, non tanto per la lucida follia del regime di Pyongyang, quanto perché la debolezza di Trump induce gli altri attori, la Cina in primo luogo, a non premere davvero su Kim. Lo scopo è quello di lasciare la patata bollente in mani americane, riconquistando così spazio di manovra nel sud est asiatico. Una Casa Bianca che fa la voce grossa e minaccia attacchi nucleari non guadagna autorevolezza, anche se molti alleati continuano ad avere bisogno della copertura Usa. La prospettata denuncia dell’accordo con l’Iran sul nucleare potrebbe soddisfare Israele, ma complicare ulteriormente lo scacchiere mediorientale, per il quale manca una strategia di lungo periodo.

Nello spirito dello slogan «America first», erano comunque i dossier interni quelli su cui misurare la capacità, da parte di Trump, di creare discontinuità con l’era Obama. Migranti, sanità e ambiente sono stati i temi caldi su cui il presidente ha dovuto scontrarsi spesso pure con il Partito repubblicano (cui resta di fatto estraneo) oltre che con il potere giudiziario. La retorica del Muro lungo il confine del Messico per ora non ha superato gli annunci, e i vari bandi all’ingresso di cittadini provenienti da Paesi musulmani sono stati limitati dalla magistratura, sebbene la linea rimanga quella di rendere più difficile l’ingresso nel Paese.

L’Obamacare, discusso e imperfetto strumento per dare un minimo di assistenza sanitaria ai meno abbienti, è la bestia nera di ampie fette dell’elettorato di Trump. Ne spiega il motivo, fra i tanti esempi, l’affermazione del pastore evangelico Ralph Drollinger, che spesso spiega la Bibbia ai membri del governo e a gruppi di parlamentari: «Da nessuna parte nel Vangelo si dice che lo Stato debba preoccuparsi dei poveri, tocca alle famiglie e alla Chiesa». Al Congresso, tuttavia, il presidente non è riuscito a costruire una maggioranza per smontare la legge. Ed è ricorso a un decreto per cominciare a picconarla.

Più facile gli è stato trovare sponde contro le restrizioni all’uso di combustibili fossili e contro l’accordo di Parigi sul clima, dal quale gli Stati Uniti si sfileranno progressivamente, benché un recentissimo rapporto approvato anche dalla Casa Bianca affermi che il riscaldamento globale è responsabilità dell’uomo, a differenza di quanto sostengono gli scettici sull’argomento.

Le contraddizioni (e le fake news – o bugie –, dicono i suoi avversari) non sono infatti un problema per Trump. Lo si è visto nel caso del riesplodere delle tensioni razziali a Charlottesville, di fronte alle quali il presidente ha prima salvato i suprematisti bianchi, per poi raddrizzare la rotta di fronte al montare dell’indignazione, quindi tornare ad attaccare duramente gli sportivi di colore che in segno di protesta si inginocchiano durante l’inno nazionale. Le contraddizioni non sono un problema nemmeno per i suoi sostenitori. Ed è questa la chiave per comprendere perché un imprenditore di scarsa esperienza e preparazione politica abbia vinto le elezioni e conservi forte appoggio diffuso.

Di Trump piacciono il modo di essere e la narrazione emotiva, che sono per molti aspetti l’opposto di quelli incarnati da Obama e dal più algido e colto progressismo democratico. Sincero o meno che sia (interessanti a questo proposito le analisi del sito factba.se), il presidente ha intercettato le richieste frustrate di ceti impoveriti (prevalentemente bianchi) sfidati dalla globalizzazione e impauriti dalle migrazioni, e di quanti non sono in sintonia con un politicamente corretto laico 'imposto' da una classe dirigente chiusa nella torre d’avorio dei suoi privilegi. The Donald, il patriota dai gusti popolari e dall’eloquio semplice e diretto, ha scelto un vicepresidente, Mike Pence, che ha potuto credibilmente guidare la 'Marcia per la vita' di Washington; ha limitato i finanziamenti per le organizzazioni che promuovono l’aborto; sostiene la legge che vieta l’interruzione di gravidanza dopo 20 settimane; ha ridato libertà politica alle Chiese, prima tenute alla neutralità se volevano benefici fiscali.

Può stupire, ma una parte dell’America sarebbe oggi pronta a rivotarlo, soprattutto se l’opposizione, proprio come risposta al trumpismo, si radicalizzerà ancora di più. E non saranno i successi o i fallimenti nelle politiche a spostare il consenso, bensì l’incarnare una sensibilità. La lezione buona per tutti, anche per noi italiani, è che non è necessariamente il migliore processo politico quello che semplifica, premia un volto o uno slogan, ma è quello con cui dobbiamo misurarci oggi. E che, forse, anche noi per la nostra parte, possiamo provare a cambiare.

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