Vaccini, pesano i giorni e ogni scelta
sabato 2 gennaio 2021

Una settimana appena è trascorsa da quando il furgone nero col suo carico di vaccini Pfizer-Biontech ha varcato la soglia dello Spallanzani di Roma con le prime 9.750 dosi di spettanza italiana. Ma la percezione del tempo nella pandemia è a tal punto distorta – ora rallenta in lockdown, ora corre quando la crisi torna a mordere – che da domenica scorsa sembrano passati ben più di sette giorni. Effetto, certo, della smisurata speranza generata da un evento simbolico presentato come una svolta, e dunque delle attese diffuse in un lampo tra la gente.

La storia accelera se in gioco c’è la vita, si esige giustamente che chi ha la responsabilità della vaccinazione di massa corra al ritmo delle aspettative generali. Il Paese segue il viaggio degli scatoloni con le fiale, grida di sbrigarsi, di fare tutto il necessario, e anche di più, se occorre.

Fate bene, certo, ma fate presto: il virus non aspetta, si mostra spietato come e più di prima, trova nuove strategie per proliferare, crea varianti, colpisce alle spalle chi credeva di essersi messo al riparo, non perdona leggerezze. Figuriamoci se non approfitta delle nostre esitazioni nel mettere in campo l’artiglieria del vaccino, ora che è disponibile.

In una settimana trascorsa mettendo il nostro fiato sul collo della scienza, della sanità e della politica perché il nemico fosse messo subito nell’angolo – quanto possiamo ancora resistere in apnea? – abbiamo scoperto che nella battaglia contro il Covid c’è un elemento determinante che sinora non avevamo contemplato: il fattore-tempo. Ne occorre tanto per spuntarla, ma non va sprecato neppure un giorno per non vanificare l’intera strategia lasciando troppo spazio di manovra al Covid che, se non neutralizzato dall’assedio vaccinale, potrebbe far credere di essere battuto per poi ricomparire con più forza proprio approfittando delle smagliature nell’operazione di attacco frontale. Delle dosi di vaccini si parla in termini di miliardi nel mondo, decine di milioni in Italia. E presentando così la controffensiva finalmente divenuta possibile, può sembrare che siamo ormai prossimi a una schiacciante vittoria: potrà mai resistere il virus a un tale spiegamento di forze?

Invece la sorpresa è che non sta proprio andando così: si leggono i dati e affiora qualche inevitabile, umanissimo interrogativo. In Italia sono arrivate sinora 469.950 dosi, quantitativo previsto da Pfizer-Biontech per la prima settimana. Ma dal 27 dicembre a ieri ne sono state iniettate solo 46.506, meno del 10%, quasi non ci fosse alcuna premura, non quella imposta dai 364 morti di ieri dopo i 462 del giorno prima. In alcune Regioni si procede persino con molta più calma: il rapporto delle dosi inoculate su quelle giunte a destinazione dopo mesi a implorarle è dell’1,9% in Sardegna, del 2,2% in Calabria, del 5,6% nelle Marche, del 7,2% in Emilia Romagna, con l’ex efficientissima Lombardia inchiodata a un inaudito 3%. Anche le aree più leste nel metter mano alle siringhe, come il Lazio, non sono andate oltre il 21,2%, con la prima della classe – la Provincia di Trento – che si arrampica al 34,8. Un terzo appena. Come se altre fossero le priorità.

Dicono le autorità sanitarie che «dalla prossima settimana, vedrete», ma sono le stesse fonti che puntano a un 70% di italiani vaccinati entro settembre: parliamo di 42 milioni di immunizzati in 9 mesi, 4 milioni 600mila al mese, più di 150mila al giorno, domeniche incluse. Se consideriamo che ogni vaccino implica una prima dose e un richiamo in tempi celeri, le iniezioni raddoppiano. Uno sforzo immane, rispetto al quale i numeri sinora esibiti sono del tutto sproporzionati. Possono inondarci di fiale, ma se l’imbuto per metterle all’opera è così stretto la piaga continuerà a infettare.

Prove di maturità il Paese da febbraio ne ha affrontate già molte, con esiti talora sorprendenti. Superare questa è un dovere morale verso la vita stessa degli italiani. Contiamo che chi ha dovere e potere non si dimostri in tutt’altre faccende affaccendato.

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