venerdì 8 gennaio 2021
Dove e perché il sistema sanitario è andato in apnea davanti alla pandemia. E cos’ha imparato per venirne fuori
Vaccini, disabili, prevenzione: l'Italia può (e deve) fare meglio

Ansa

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Rispettando il turno che mi è stato assegnato, lunedì ho esercitato il mio diritto-dovere di vaccinarmi. Che grande opportunità! L’ho fatto perché sono e rimarrò sempre medico e ricercatore; perché credo nella scienza e nell’etica di chi la pratica; perché sono stato e mi sento uomo delle istituzioni per tutti i ruoli che ho ricoperto, non ultimo presidente e direttore generale di Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, e ben conosco gli iter di approvazione. Ho la certezza che ogni farmaco approvato risponda ai criteri di qualità, sicurezza ed efficacia. Mi sono vaccinato perché da diversi anni sono un malato di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla). L’ho fatto perché per svolgere al meglio il mio ruolo di amministratore delegato di un grande gruppo che opera nella sanità è importante per me interagire direttamente con i miei colleghi medici, con tutti gli operatori sanitari, con i pazienti. E ho il dovere di proteggere i componenti della mia famiglia.

Mi addolorano le discussioni sulla sicurezza dei vaccini e le polemiche sull’obbligo vaccinale, perché mi piacerebbe vivere in un Paese in cui la cultura diffusa intervenga senza bisogno di una legge. Mi addolora di più il costante ritardo con cui la nostra amministrazione assume le decisioni e fornisce agli operatori le indicazioni per poter programmare ogni attività che tuteli la salute dei cittadini. Il sistema della ricerca in tutto il mondo ha prodotto sforzi inimmaginabili, riuscendo a trovare prodotti (vaccini, anticorpi monoclonali) efficaci contro il virus che ha messo in ginocchio i nostri sistemi sanitari, sociali, economici. Trovo inaccettabile che nel tempo in cui i ricercatori erano al lavoro il sistema- Paese sia rimasto quasi immobile, arrivando al paradosso che oggi negli ospedali ci sono i vaccini ma manca il personale (e non tutto quello presente è stato formato), mancano le siringhe per inocularli, o non sono appropriate, è carente l’organizzazione. Non accade solo in Italia, ma può consolarci? Per anni abbiamo ripetuto che il nostro Servizio sanitario nazionale fosse il più bello del mondo, citando classifiche che in realtà premiavano la capacità di offrire tanti servizi a fronte di modesti investimenti. È vero che siamo riusciti a soddisfare la domanda di salute per tutti i cittadini, ma nel tempo abbiamo scoperto che è stato possibile grazie allo sforzo immenso ed encomiabile di un personale sanitario sempre più anziano, senza che venisse affrontata la questione del turn over, con medici e infermieri stressati da turni sempre più faticosi, in cambio di un riconoscimento economico inferiore agli altri Stati. Il tutto mentre le strutture e il parco tecnologico diventava sempre più obsolescente.

La Costituzione ci impone di prendere in cura i più deboli, i malati, perché la salute è il bene più importante. La pandemia, con i suoi devastanti effetti, ha colpito in forme diverse tutti noi, ma vorrei pensaste per un momento agli effetti sui più fragili tra i fragili: gli anziani, le persone con disabilità fisiche, intellettive e relazionali. Dovrebbe essere questo il momento della condivisione per un obiettivo comune: lavorare sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano come punto di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza. Un Paese che voglia veramente dirsi civile deve essere in grado di mettere tutti i propri cittadini nella condizione di vivere con dignità anche l’esperienza della fragilità, della malattia e della grave disabilità, promuovendo l’inclusione e non l’isolamento e l’abbandono. Vivo la malattia come un valore aggiunto, che ha arricchito il mio lavoro quotidiano: è cambiato lo sguardo verso gli altri e me stesso. Le sono grato, perché mi ha consentito di affrontare con sincera apertura le mie paure. Non è stato facile: la freddezza del medico che ha coscienza della gravità di una malattia come la Sla si è dovuta scontrare con la fragilità dell’essere umano. Ho questi due ruoli in una sola testa, un solo cuore. Intendiamoci: non avrei mai voluto incontrare la malattia, vorrei poter andare ancora in bicicletta o arrampicarmi sulle mie montagne, ma è con la malattia che il mio sguardo è cambiato, e so cosa rappresenta oggi una sanità stravolta per chi spesso presenta comorbilità importanti, deve rivolgersi con frequenza alle strutture sanitarie e le trova in difficoltà a garantire risposte 'causa Covid'. Penso alla loro esigenza di recarsi in sicurezza in ospedale insieme ai caregiver, alle prestazioni rinviate, alla rete socio-assistenziale che in una larga parte del nostro territorio non riesce a soddisfare le esigenze già in tempi cosiddetti normali. Lo tsunami di febbraio-marzo aveva generato gravi difficoltà in particolare su queste persone e le loro famiglie. Quanto pesa su di loro l’organizzazione, che avrebbe potuto mitigare gli effetti della seconda ondata, e che invece è mancata?

Per mesi si è preferito parlare della crisi del sistema lombardo. Legittime tutte le critiche, e alcune di esse anche parzialmente condivisibili, ma ci vuole onestà intellettuale riconoscendo – io per primo – che quanto accaduto avrebbe messo in grandissima difficoltà qualsiasi sistema. Ora, dopo dieci mesi di guerra sanitaria negli ospedali, sul territorio e nelle nostre città, c’è qualcuno che possa avanzare la pretesa di dichiararsi detentore di un sistema perfetto, o certamente migliore di quello lombardo? Si discuta di sussidiarietà tra pubblico e privato, ma senza tabù, partendo dai costi della sanità: quanto costa e quanto rende in termini di salute ogni euro speso, in cura, assistenza e ricerca, nei vari modelli regionali? Se vogliamo indicatori oggettivi, che ci dicano dove si cura meglio e dove il paziente trova le risposte che cerca, basta leggere il Piano Nazionale Esiti curato da Agenas e i dati sulla migrazione sanitaria tra Regioni, che il Ministero della Salute possiede.

Nel giugno scorso avevamo due certezze e una speranza. Le due certezze erano la seconda ondata del virus e l’esigenza di prepararci con una più efficiente organizzazione del sistema. La speranza era un vaccino che prima dell’influenza stagionale ci aiutasse nella lotta al Covid-19. Walter Ricciardi elaborò un piano largamente condivisibile da chiunque operi nelle organizzazioni sanitarie: prevedeva una centralità di scelte, oggetto di confronto e condivisione con le Regioni, investimenti per l’adeguamento delle strutture e il reclutamento di personale sanitario, un grande piano vaccinale e un piano straordinario per le enormi liste d’attesa che nel frattempo lo tsunami-Covid aveva generato. In sei mesi cosa è stato fatto? A vedere ciò che accade oggi negli ospedali, e non solo, direi non molto. A settembre, prima della seconda ondata e del nuovo stop alle cure, erano saltate oltre 100 milioni di prestazioni sanitarie: tac, risonanze, ecografie, esami radiologici. Il 20% ha a che fare con il pronto soccorso e il 10% con i ricoverati. Gli altri 70 milioni sono nel pacchetto di chi prende appuntamento per eseguire gli screening di prevenzione, quello che definiamo investimento in salute, perché una persona sana costa alla società molto meno di una malata. Ma alle parole non seguono i fatti. Durante la prima ondata sono saltati 5,8 milioni di esami, salvo parte di quelli oncologici. A maggio e giugno scorso si è lavorato a metà, con la perdita di oltre 17 milioni di esami. Il numero delle visite specialistiche è ancora superiore. Questo determina i malati di domani. Nella sola prima ondata sono saltati 600mila interventi e le prestazioni sono state ridotte dell’80%. Secondo un sondaggio Acoi di settembre, gli interventi programmati erano ripresi solo nel 21% delle strutture sanitarie. Numeri che devono allarmarci, mentre l’Istat certifica che nel 2020 ci sono stati tanti morti quanti non se ne vedevano dal secondo conflitto mondiale, e non tutti per conseguenze dirette del Coronavirus ma anche per tante prestazioni non effettuate.

Prima dell’estate 2020 tutto questo era stato preventivato, ed è innegabile che, sul piano organizzativo, la macchina non ha funzionato nel modo migliore. Ce lo dicono i numeri delle persone morte e dei contagi, la pressione nei pronto soccorso, nelle terapie intensive, lo stress psicofisico del personale, le liste d’attesa che accumulano ritardi su ritardi, una domanda di salute da parte dei cittadini che purtroppo resta senza risposta. Far notare tutto questo non vuol dire essere antisistema: mi sento uomo delle istituzioni, orgogliosamente sostenitore del modello di sanità pubblica, e credo solo nel lavoro e nei fatti che determina. Conosco e stimo la professionalità degli operatori e le potenzialità enormi del nostro apparato. Forte della mia esperienza so che possiamo fare meglio, che avremmo potuto pianificare, organizzare prima gli operatori, attrezzare le strutture per vaccinare. Già oggi potremmo dare migliori risposte ai bisogni di salute. Ci vuole dedizione, competenza, serietà, rigore e determinazione. È tempo di scelte adeguate al momento drammatico che stiamo vivendo. Chi opera in sanità è solo in attesa che vengano fatte da chi ne ha la responsabilità, per metterci tutti insieme al lavoro perché l’obiettivo prioritario da raggiungere è il bene dei pazienti con la tutela della salute e la sicurezza dei cittadini.

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