Una libertà illiberale
venerdì 29 maggio 2020

Uno scacco ai social alla fine ha voluto darlo con un ordine esecutivo. Intanto, ricapitoliamo il perché. In uno dei suoi tanti messaggi via Twitter, Donald Trump ha insinuato che il voto per posta in occasione delle elezioni presidenziali del 3 novembre sarebbe substantially fraudulent, ovvero suscettibile di vasti brogli, in quanto assegnerebbe ai democratici un vantaggio indiscutibile rispetto all’elettorato repubblicano. In parte è vero: i dem votano più massicciamente a distanza di quanto non facciano i sostenitori del Grand Old Party. Questa volta però la piattaforma fondata da Jack Dorsey è intervenuta con un "alert" che definiva le affermazioni del presidente «prive di fondamento», bollandole come fake news.
La reazione di "The Donald", irruenta e precipitosa come sempre, ha introdotto una stretta sulla libertà assoluta di cui i social network tuttora godono, togliendo loro lo scudo legale dietro al quale finora si erano riparati, forte anche del Primo emendamento della Costituzione americana – libertà di parola, pensiero e religione –, che Trump ora invoca non senza una sua machiavellica legittimità: la Casa Bianca fa sapere che non intende oscurare la libertà dei social network di ospitare ogni genere di commenti, immagini, filmati, ma si limita a incaricare la Fcc (l’agenzia centrale delle comunicazioni) di rivederne le norme che regolano la possibilità da parte di giganti come Facebook, Twitter, Google, finora messi al riparo da ogni responsabilità, di oscurare o censurare a piacere ciò a loro giudizio appare privo di sostanza e di veridicità. Per interventi di "selezione" potranno invece essere d’ora in poi portati in giudizio.

Il tema è spinoso, come s’intuisce, e di non facile soluzione. Rivendicare un’algida neutralità da parte dei giganti del social non è più possibile: attraverso i miliardi di messaggi su Instagram, su Facebook, su Google, sullo stesso Twitter transita ogni genere di sciocchezze e una miriade di false notizie. I "trolls" di San Pietroburgo, i mestatori professionali di ogni Paese, le agenzie che diffondono veleni e calunnie su vasta scala (dalla Russia, dalla Cina, dal mondo arabo, ma anche da insospettate entità regionali), agiscono da lungo tempo indisturbate. Preoccupato per il calo di popolarità dovuto in larga misura al coronavirus, all’impressionante numero di vittime, al lockdown che ha messo in ginocchio l’economia nazionale e portato al conseguente crollo del benessere diffuso, Donald Trump reputa che i social network siano un centro di contropotere nelle mani dei liberal, ovvero di quei cittadini che a suo giudizio sono principalmente unpatriotic, e che in buona sostanza mai voteranno repubblicano. Cioè mai voteranno per lui.
Il grimaldello di cui Trump intende servirsi è semplice quanto letale.

Finora la Sezione 230 del Communication Decency Act del 1996 sanciva che nessun fornitore di un servizio informatico interattivo potesse essere considerato «l’editore di qualsiasi informazione pubblicata da un altro fornitore di contenuti informativi». Una manleva, in pratica, che esonerava le aziende dalla maggior parte delle responsabilità su ciò che viene pubblicato sulle piattaforme e concedeva loro ampia discrezione nel modo in cui moderano i post e gli altri contenuti. Trump invece prova a ribaltare il tavolo, facendo introdurre il concetto di "malafede" " (già riconosciuto dalla Corte Suprema nel 1964) da parte dei social network, con la possibilità da parte degli utenti – quindi anche sua – di citarli in giudizio. A cominciare da Twitter, che peraltro, con i suoi 80 milioni e oltre di seguaci, è la principale tribuna dalla quale il presidente scaglia i suoi anatemi e altrettanto spesso i suoi insulti nei confronti di avversari e nemici.A Harry Truman i maccartisti rimproveravano di essere soft on communism, morbido col comunismo , a causa di quella società popperianamente aperta – o dal ventre deplorevolmente molle secondo i suoi detrattori – che poteva consentire al 'nemico' di infiltrarsi subdolamente nel sistema avvelenando la linfa sana d’America. Settant’anni dopo Donald Trump sembra aver recuperato quel clima, lo stesso che animava Jack D. Ripper, il generale pazzo del romanzo Red Alert, meglio noto nella trasposizione cinematografica fatta da Stanley Kubrick nel Dottor Stranamore.

Oggi infatti per l’inquilino della Casa Bianca gli infidi sabotatori dell’american way of lifesembrano essere diventati i social network. Puntualmente bisognosi di manutenzione, questo è certo, ma per alcuni la tentazione di chiuderli o di oscurarli del tutto è fortissima, oltre che più pratica. Fanno così certi compagni di strada di Trump – da Bolsonaro a Erdogan a Orbán, da Putin a Lukashenko, ad al-Sisi a certe satrapie del Golfo sino al 'grande avversario' Xi Jinping – tutti accomunati da una profonda insofferenza nei confronti della democrazia e da una malcelata idolatria dell’Uomo Forte. Ma Donald Trump ha una peculiarità che in qualche modo conforta e rasserena: come nel paradosso del mentitore di Epimenide, è assai poco credibile e per di più ci ha abituati a considerare le sue minacce poco più di una boutade. O comunque – speriamo – più una una forma di pressione che un vero giro di vite.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI