sabato 21 maggio 2022
La dinamica della guerra sta divaricando gli interessi anglo-americani rispetto a quelli dell’Europa continentale e mediterranea Ma non possiamo rassegnarci alla logica bellica
Paesi come Francia, Germania, Italia e Spagna non vogliono accettare lo scenario incombente da guerra fredda Perché le crisi globali non si risolvono con il ricorso alle armi

Paesi come Francia, Germania, Italia e Spagna non vogliono accettare lo scenario incombente da guerra fredda Perché le crisi globali non si risolvono con il ricorso alle armi - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Nella drammatica crisi ucraina emerge un dato di fatto: l’asimmetria degli interessi tra l’Europa – soprattutto l’Europa continentale d’Occidente (atlantica da sempre, e già questo dovrebbe far riflettere) – e gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, con il premier inglese Boris Johnson che si è ritagliato un ruolo da 'proconsole' Nato di riferimento dei Paesi dell’Est europeo, già fino al crollo dell’Urss facenti parte del Patto di Varsavia e comprensibilmente renitenti all’influenza post-sovietica della Russia di Vladimir Putin.

Questa asimmetria coinvolge anche quei Paesi scandinavi – Svezia e Finlandia – che dopo una lunghissima storia di neutralità (militare, non certo sul piano di condivisi valori di libertà) sono ora entrambi candidati alla Nato, che sta tornando a essere Alleanza atlantica nord-europea, fedele per altro al suo acronimo; e non capace, come l’abbiamo vista operare per decenni, di esprimere anche gli interessi dell’Europa centro-meridionale. Questo è così vero che l’aspetto più importante (e sensato) della missione in Usa di Mario Draghi – personalità certamente non tacciabile di dubbio atlantismo – è stato quello di rappresentare il disagio dell’Europa continentale e mediterranea all’estensione nel segno dell’escalation bellica del sostegno militare, economico e politico alla resistenza ucraina all’invasione russa.

E, insieme, l’impegno (condiviso da tutti) per la cessazione delle ostilità sul terreno e il raggiungimento di una pace il più possibile vicina agli interessi di Kiev, pur nella consapevolezza di un confronto con la Russia proiettato su orizzonti di scontro geopolitico di medio e lungo periodo. Nel proporsi come interprete del disagio d’Europa, Draghi si è anche presentato come garante del fatto che questa differenziazione di interessi non si divarichi ulteriormente mettendo in crisi il dialogo atlantico, che ha due sponde, ricordiamolo sempre, e ha avuto sinora una malcerta tenuta unitaria dell’Unione Europea. Tematizzare questa differenziazione di interessi tra un atlantismo anglo-americano e un atlantismo continentale o, meglio, ragionare su come interpretare la nostra collocazione occidentale e atlantica, che nessuno mette in dubbio sensatamente, non può essere ridotto ad antiamericanismo, a filoputismo: in soldoni, a tradimento dei soliti 'chierici' pacifisti nel ruolo di 'utili idioti' al seguito delle sopravvivenze intellettuali 'comuniste'. Un approccio del genere non sta in piedi.

È un residuato 'bellico' ideologico più che intellettuale di un altro mondo. Usarlo oggi porta ad ascrivere persino il Papa nel campo 'antiamericano', si è dovuta sentire anche questa; e in una simile logica De Gasperi, Dossetti – l’uno riparato in Vaticano, l’altro resistente –, La Pira e Moro oggi verrebbero addidati come antiamericani. Chi usa questo schema interpretativo da guerra fredda, coscientemente o no, lavora per far tornare quella spaccatura del mondo.

Ma a quali fini dovremmo noi europei continentali e sud-atlantici (Francia, Germania, Italia, Spagna) accettare un tale scenario da guerra fredda? Un passaggio di un recente intervento di Ernesto Galli della Loggia sul 'Corriere della sera' a presidiare i nostri obblighi atlantici – perché in una valutazione politica complessiva non possiamo non riconoscere che con gli Usa condividiamo gli stessi valori umani, sociali e po-litici, ed essi sono la «sola potenza mondiale che si è opposta prima, per mezzo secolo, alla minaccia del comunismo sovietico che altrimenti ci avrebbe facilmente portato nella sua sfera d’influenza; ed è l’unica che oggi contrasta la trasformazione del mondo in una catena commerciale sottomessa ai desiderata di Pechino» – ci aiuta a capire con disinvolta franchezza i valori occidentali che, al di là dell’Ucraina, saremmo chiamati a difendere: impedire la trasformazione del mondo in una catena commerciale sottomessa ai desiderata di Pechino, appunto. In sostanza gli Usa (e l’Occidente al seguito), che hanno inventato i Pall Mall, il supermercato che ha vinto la guerra fredda, insieme alla corsa agli armamenti nucleari, e Amazon e l’internet dei Big Data, cioè il Postalmarket digitale globale, sarebbero i garanti di un mondo non ridotto a «catena commerciale».

Tanto più se poi il prossimo ammini-stratore delegato potrebbe essere a Pechino. Una tesi che, piuttosto che esprimere la positività dei valori occidentali di dignità, libertà, democrazia, ci pare esprima piuttosto la frustrazione occidentale per il cambio dei pesi nel consiglio di amministrazione del supermercato globale che è destinato a essere il mondo. E impoverisce e delegittima le stesse ragioni ideali e gli interessi nazionali dell’eroica resistenza in Ucraina. E il nostro sostegno a queste ragioni e a questi interessi. In sostanza, si argomenta – e questo la dice lunga sull’esame di coscienza che devono fare gli stessi valori occidentali per tornare accetti e credibili al mondo globale – che il mercato globale, con buona pace dei padri nobili del liberalismo, non può essere un mercato perfetto, non corretto dalla mano pubblica; in questo caso la mano militare. Siamo ancora, come si vede, alle cannoniere a sostegno dell’imperialismo liberale. Niente di nuovo sotto il sole, perché è noto fin dai commerci fenici che il mercante era anche uomo d’armi.

E non è un argomento particolarmente forte la presenza di imperialismi autoritari, illiberali e certamente, peggiori dei nostri. Perché presa questa china, quando la guerra è la politica economica globale condotta con altri mezzi, il fixing dei prezzi e dei valori azionari dei concorrenti sul mercato alle strette lo decide non la libera concorrenza 'pacifica' ma il confronto sul terreno, che insanguina ulteriormente la guerra ibrida già condotta di per sé dalla logica autonoma dei mercati; a sprazzi e bocconi debolmente temperata da organi internazionali 'caritativi' o di ispirazione istituzionale, ad esempio la Fao, o di ispirazione privata, le fondazioni dei vari magnati. Chi ha lo sguardo lungo della storia ci vede all’opera il medioevo tecnologico già profetizzato da oltre mezzo secolo.

Ora il punto è se vogliamo rassegnarci alla guerra come geopolitica economica e finanziaria condotta con altri mezzi, con buona pace dei 'valori' fondativi quanto meno dell’Europa cristiana nella sua versione migliore. Oppure alla guerra, e tanto più in presenza di attori nucleari, non intendiamo affatto rassegnarci. Perché la guerra non è più ipotizzabile come soluzione per frenare o spingere a vantaggio degli uni o degli altri le dinamiche della globalizzazione. Dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo se non vogliamo avere davanti un secolo di guerre per decidere chi deve guidarla, la globalizzazione. Magari una convivenza multilaterale degli interessi, lasciando in pace il suprematismo dei valori occidentali, che forse è il modo migliore di mostrarne al mondo il carisma attrattivo per la fraternità necessaria di cui abbiamo bisogno sulla nostra unica terra.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI